AGI – “Per fortuna ogni generazione ha le sue ansie, nel senso che senza ansia non si va da nessuna parte, non s’inventa nulla. L’ansia non è una patologia che necessariamente ti blocca. Borges parlava dell’ansia del poeta, che in sé è anche creativa e nasce, appunto, da una preoccupazione. Chi non ha avuto preoccupazioni? Esistono forse generazioni che non le hanno mai avute?”.
Il professor Paolo Crepet, psichiatra, sociologo, saggista e scrittore di romanzi a sfondo psicanalitico – l’ultimo suo sforzo saggistico-letterario dedicato alle giovani generazioni è un’esortazione: “Prendetevi la luna” (Mondadori) – è un po’ infastidito dalla piega che ha preso il dibattito seguito all’incontro tra la giovane Giorgia Vasaperna, che ha usato l’ecoansia per descrivere le sue paure davanti al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, prima di scoppiare in lacrime e provocarne la commozione.
Professore, cosa non le sta bene del dibattito sull’ecoansia?
“Il problema è che c’è tutto un condizionamento riflesso di questo discorso”.
Non lo ritiene veritiero?
“Il punto è che siamo noi a essere ansiosi per loro e allora li carichiamo di ansie che non avrebbero o che avrebbero in senso fisiologico”.
Insomma, l’ecoansia dei ragazzi sarebbe indotta dagli adulti?
“Mi spiego e mi ripeto: tutte le generazioni hanno avuto le loro ansie. Certo che c’è l’ansia per il futuro, è ovvio che ci sia. Non riesco nemmeno a capire come si possa vivere in maniera differente senza preoccupazioni. Mettiamola così: cosa ci farebbe piacere per i nostri figli? Che non avessero nessuna ansia? Ma sarebbero amebe a bordo piscina a farsi uno Spritz, che non è nemmeno edificante per una generazione, specie di questi tempi. Lo Spritz te lo farai quando avrai conquistato le tue tappe, ma non può essere il prodotto finale del nulla”.
Si spieghi meglio.
“Voglio dire, questi ragazzi hanno davvero la preoccupazione per il futuro della Terra e per la sua sopravvivenza? Allora cominciamo con il fare una cosa: come ha detto il pubblico ministero Gratteri in una recente intervista, le droghe producono disboscamento nelle foreste amazzoniche, omicidi a migliaia per il traffico degli stupefacenti con torture, inquinamento delle falde eccetera… Se questi ragazzi volessero davvero dare un contributo che non sia stare qua e andare dallo psicanalista di riferimento, allora cominciassero a dire cosa non vogliamo: per esempio, non assumere più droghe. Vogliamo invece mantenere questo modo di vivere, fatto d’inquinamento con i nostri stili di vita? Non sono gli ottantenni che inquinano il Pianeta, un 35enne che prende un volo low cost non contribuisce forse a inquinare? Certo che sì. Siamo ormai al marketing dell’ansia”.
Perché marketing? È una battuta, uno slogan?
“Lo definisco così perché va bene per i social. Parlare per battute come ‘oddio non arriveremo al 2050!’, questa è una battuta. Cara signorina Giorgia, ci vuole allora dire quale vuol essere il suo contributo per non arrivare a vedere il mondo che implode nel 2050? Cosa intende fare lei, Giorgia, intanto? E cosa chiede a noi di fare? Non basta piangere e far commuovere il ministro”.
Un mezzo psicodramma…
“Appunto. Questo psicodramma collettivo intergenerazionale si chiama marketing, nel senso che si autoriproduce. Anche l’ansia produce denaro”.
Ne parla come se l’ansia fosse un grande business.
“Ovvio che sia così. Perché consumiamo psicofarmaci, consumiamo psicoterapie, non facciamo nulla per porvi rimedio, quindi non produciamo beni materiali, semmai li consumiamo”. Restiamo in attesa, soprattutto.
“Esattamente. Attendiamo, e chi attende consuma perché non produce valore aggiunto. Aspetta che sia prodotto da qualcun altro, esattamente come stiamo facendo noi. Noi aspettiamo che la Sylicon Valley piuttosto che la Corea del Sud o i cinesi producano nuovi modelli digitali anziché nuove macchine di un certo tipo, e noi che non produciamo nulla di tutto questo, semplicemente consumiamo tutto ciò”.
Spettatori e fruitori delle rivoluzioni altrui?
“Esatto. Se uno è un consumatore, perché deve farsi venire pure l’ansia di esserlo?”
Dia lei la risposta. L’ansia come fattore indotto?
“È auto riprodotto. L’ecoansia avrebbe un senso, come parola, se ci fosse oggi qualcosa che ieri non c’era. Per carità, a scanso di equivoci e per evitare future polemiche, io non sto affatto negando che sia stato un luglio particolarmente caldo e oltre misura, io non sto negando che non ci siano fattori climatici estremi, non sto negando nulla di tutto ciò”.
Però…?
“Però tutto questo è stato prodotto da qualche cosa che, tuttavia, noi vogliamo”.
O proponiamo dei rimedi oppure stiamo zitti, vuol dire questo?
“È così. Mi si dica almeno cosa dobbiamo fare per uscirne. Non possiamo solo contare i nubifragi”
L’ansia è paralizzante.
“Perfetto! È esattamente così. Allora se siam tutti paralizzati mi si deve dire come ne veniamo fuori. Se tutti sono paralizzati è chiaro che il nemico ci sovrasta. Ed è persino peggio che esser paralizzati. Perché in ogni caso da paralizzati produciamo consumo, di suolo, di atmosfera”.
Faccia un esempio concreto.
“Quando ai nostri tempi abbiamo fatto l’esame di maturità non avevamo di certo l’aria condizionata. E non è che i nostri genitori non se la potessero permettere. Ma allora non c’erano i condizionatori. Ma non avevamo l’ansia perché non c’era l’aria condizionata. Ora che mi si dica che nel 1967-1968 o ’69, a luglio, facesse fresco, questo è un insulto alla memoria. Perché io mi ricordo benissimo che mi rigiravo in mutande sulle mattonelle. Questo non è negazionismo, è storia”.
Ma venendo all’oggi?
“Anch’io oggi non riuscirei a stare in un albergo che non avesse l’aria condizionata. Quindi sono anch’io fatto così. Siamo diventati tutti collusi. Non riusciamo più a sopportare quella condizione. E neanche d’inverno il freddo. Ne abbiamo parlato, ma poi ce ne siamo subito scordati: appena è scoppiata la guerra in Ucraina ci siamo detti che dovevamo tenere il termostato a 19 gradi, come suggerito da Draghi, ma poi questa è diventata una battuta dal lunedì al martedì”.
E con l’aria condizionata è poi saltato tutto.
“Certo, ma è saldato tutto anche con il riscaldamento a 22 gradi…”.
Cosa si tratta di fare, in ultima analisi?
“O ci mettiamo nella parte di chi si preoccupa di ciò che fa oppure siamo ansiosi pensando che siano altri quelli che ci fanno patire e noi siamo solo le vittime. Questa seconda visione delle cose mi sembra totalmente scriteriata. O si cambia registro o sono davvero guai per tutti. O agiamo e ci diciamo qual è la soluzione, le cose da fare oppure non andiamo da nessuna parte. Intanto solo adesso scopriamo che in Svizzera c’è un’azienda che produce camion Tir che per la prima volta utilizzano idrogeno, allora domandiamoci come mai oggi in autostrada, invece, sono passati migliaia e migliaia di Tir enormi che consumano Diesel. Perché i ragazzi non si occupano dei trasporti? Amazon lo facciamo muovere noi con le nostre richieste quotidiane. È una questione di stili di vita. La nostra realtà è un mix tra cose molto positive che generano cose molto negative”.
In conclusione?
“L’atteggiamento vittimistico fa parte non della cura ma della patologia. L’ansia crea ansia, non crea risorse. O prendiamo il toro per le corna o ci teniamo l’ansia. Allora cominciamo a porci il problema che ci vuole l’idrogeno e non l’elettrico, a dire che le navi su cui tanti ragazzi vogliono fare le crociere con i propri figli piccoli sono inquinantissime. Basta dire noi non abbiano colpe! Chi le ha, allora? Siamo tutti complici. Questo pianto collettivo non è un’uscita di sicurezza. Anzi, ci ritroviamo in un’altra stanza, peggiore di quella da cui siamo scappati”.