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Thyssen, il manager in carcere in Germania 16 anni dopo

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AGI – Si chiude dopo quasi sedici anni la vicenda dell’incendio nello stabilimento torinese della ThyssenKrupp, che si verificò nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 e che causò la morte di sette operai: Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Giuseppe Demasi.

Harald Espenhahn, amministrazione delegato dell’azienda tedesca all’epoca dei fatti, ha varcato i cancelli del carcere, dove dovrà scontare una condanna a cinque anni per omicidio colposo: la sentenza era arrivata in via definitiva nel 2016, ma non era ancora stata eseguita a causa di alcuni ricorsi che lo stesso Espenhahn aveva presentato al tribunale tedesco. Sconterà la pena in regime di semi-libertà.

A ripercorrere sui social le tappe della dolorosa vicenda è Antonio Boccuzzi, operaio alla ThyssenKrupp di Torino e unico sopravvissuto al rogo della linea 5 dello stabilimento di corso Regina Margherita. “I tempi nella giustizia sono fondamentali, sia nel corso del processo che nell’esecuzione della sentenza – spiega – il 13 maggio 2016 si è chiuso in Cassazione il processo Thyssen. Tutti condannati gli imputati. Solo gli italiani però varcano la soglia del carcere il mattino successivo alla sentenza. I tedeschi continuano a fare quello che facevano prima, come nulla fosse: più forti della giustizia e dello Stato in cui sembrava giustizia si fosse compiuta. Giustizia, già. Una parola affascinante che da idea di equilibrio, di equo risarcimento. Quando muoiono in maniera drammatica sette persone nulla può essere equo o avvicinarsi lontanamente al giusto”.

“Quel pomeriggio di sette anni fa in Cassazione – prosegue Boccuzzi – scoprimmo che la giustizia si ferma davanti ai confini tra Paesi anche vicini, 10 anni di reclusione riconosciuti nel lungo processo di Torino, in Germania ne valgono al massimo 5, ma devono essere comunque confermati e questo richiede tempo. Il tempo quando hai un traguardo da raggiungere deve diventare tuo malgrado il tuo alleato. Pensi che sarà il solito anno che abbiamo trascorso da un grado all’altro”.

A dare il via all’iter giudiziario, era stato il pm Raffaele Guariniello, grande esperto di sicurezza sul lavoro. Nel mirino, le misure di sicurezza dell’impianto che era destinato alla chiusura. Sono stati cinque i gradi di giudizio del procedimento penale che ne sono seguiti. “Passa un anno, ne passano due, ne passano molti – dice Boccuzzi – passano i governi, passano i ministri della giustizia, passano le parole di circostanza. Quello che non passa sono rabbia e dolore per una ferita che non si rimarginerà mai ma che potrebbe fare un po’ meno male se tutti gli imputati, tedeschi compresi, scontassero la loro pena. Ogni giorno il senso di giustizia e la fiducia nella stessa vengono messi a dura prova”.

“Non abbiamo mai perso quel barlume di fiducia che ci ha spinto sempre a lottare a non pensare che a vincere siano sempre i potenti prepotenti – aggiunge – ma che questa volta sarebbe stato diverso. Lo dovevamo a noi, ai nostri cari e a tutti coloro che perdono la vita lavorando. Ora dopo 5726 giorni il signor Harald Hesphenhann dopo tanto correre, scappare dalla giustizia ha varcato la soglia del carcere. Non è un risarcimento, non è vendetta e solamente l’unico epilogo che si sarebbe gia’ dovuto compiere da tempo e che è stato solo rimandato”.

Intanto, Torino non dimentica la tragedia della Thyssen: è ancora vivo il ricordo delle sirene delle ambulanze e dei vigili del fuoco che hanno squarciato quella fredda notte del dicembre 2007. E poi la lotta per la salvezza in ospedale per ciascuno dei sette operai ustionati dalle fiamme, fino all’epilogo più tragico. Da allora, ogni anno, i famigliari che hanno continuato a lottare per avere giustizia si ritrovano al cimitero monumentale dove e’ stato costruito un sacrario per le sette vittime e chiedono di non essere dimenticati.

“Certo, quei 5 anni saranno ulteriormente ridimensionati, lo sappiamo e non ci facciamo strane o vane illusioni – conclude Boccuzzi – ma un passo è stato compiuto e questo non ce lo porta via nessuno”. 

 

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