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Cultura

Matteo Garrone, un po’ Capitano un po’ Robin Hood

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AGI – Non Calvino, non Omero, non altri: è stato forse Robin Hood e il suo combattere l’ingiustizia a determinare la poetica di Matteo Garrone, Leone d’Argento a Venezia per “Io capitano” e ora in corsa per gli Oscar 2024, in rappresentanza del cinema italiano.

Il regista romano è stato a Genova per incontrare il pubblico nelle sale “Corallo” e “America” di Circuito Cinema, dove le tre proiezioni del suo film hanno registrato in pochissime ore il tutto esaurito. Studenti liceali, trentenni, over “anta” hanno affollato le sale, assistendo a un’opera che mescola realtà e favola per raccontare l’epopea, spesso tragica, dell’emigrazione. AGI ha incontrato Garrone tra una proiezione e l’altra e, insieme a lui, ha ripercorso la genesi della pellicola.

Garrone, si ricorda il momento esatto in cui ha deciso di realizzare “Io capitano”?

Ricordo di essere andato tanti anni fa a trovare un amico in un centro d’accoglienza a Catania. Era un centro per minori e lì mi hanno raccontato la storia di Fofana, quell'”Io capitano” che ha dato il titolo al film e che è diventato tutta la parte finale del film: un ragazzo che all’età di 15 anni ha portato in salvo 250 persone, guidando una barca. Quella storia mi rimase impressa: mi fece pensare ai romanzi di mare di Stevenson, di Jack London. Poi ho realizzato “Pinocchio” e il tempo è trascorso, ma è stato come se quel film mi fosse venuto a prendere a un certo punto, come se mi avesse scelto: non ricordo il momento esatto, ma ricordo che mi sono trovato a lavorare a questa storia. Ho raccolto altre testimonianze, racconti e li ho messi insieme, fino alla nascita di “Io capitano”.

Con il film ha cambiato prospettiva sui migranti, dei quali siamo abituati a seguire lo sbarco, non la partenza. Perché?

Uno dei motivi che mi ha spinto a fare il film è stata proprio la volontà di cambiare la prospettiva, di raccontare in controcampo tutta quella parte di viaggio che di solito non si conosce e far vedere che dietro ci sono famiglie, desideri, sogni, persone che hanno gli stessi interessi che abbiamo noi. Ce lo dimentichiamo. Il film fa vedere il viaggio da quel punto di vista, dà voce a loro: io ho fatto solo da tramite. Sono avvantaggiato nel raccontare, perché usando le immagini posso essere più efficace in certi casi. È un potere grande quello del cinema, ma ovviamente dipende da come lo si usa. Il mezzo di suo è potente.

La critica ha fatto molti parallelismi tra lei e Italo Calvino. Che ne pensa?

Calvino non l’ho mai letto, perché ho iniziato a leggere tardissimo, quasi a 19 anni. Ma invece ricordo il primo film che ho visto da piccolo: Robin Hood. Il tema della giustizia quindi per me è qualcosa di ricorrente. Ritorna anche oggi, con “Io capitano” che, di fatto, parla di un’ingiustizia profonda, di chi in qualche modo è giovane, vuole muoversi, ma gli è preclusa la libertà di farlo. Questo tema forse mi è rimasto dentro da allora: a essere onesti è una riflessione che faccio adesso, con questa domanda. Non ci avevo mai pensato prima.

Rappresenterà l’Italia agli Oscar, ponendo i riflettori su un tema che vede il nostro Paese al centro del dibattito. Che ne pensa?

È un tema universale quello trattato dal film. Noi poi, come Paese, siamo sempre stati migranti. Questo è un film che ho iniziato a fare tre anni fa, senza pensare che fosse pro o contro un governo. Ma è un film che aiuta ad avere una prospettiva diversa, che può far riflettere. Non penso che la politica non sappia queste cose. Non credo che la forza di questo film sia nelle informazioni che dà: che si muore nel deserto, che ci siano i campi di detenzione in Libia, che si muore in mare lo sappiamo purtroppo tutti. Ma è un film che ha delle qualità che sono più legate al racconto, alla capacità degli attori di riuscire a toccare delle corde profonde dello spettatore: penso siano queste le cose che rimangono. Lo spettatore dopo pochi minuti entra in empatia con Seydou e con la sua purezza, con la sua verità e la sua umanità. Fa il viaggio insieme a lui, lo vive emotivamente con lui, lo segue nel viaggio dell’eroe. È una struttura classica, all’interno del dramma di quest’epoca.

Sta già lavorando a un altro progetto?

Mi piacerebbe avere un nuovo progetto, ma in questo periodo sto accompagnando il film ovunque e non ho avuto modo di fermarmi a riflettere su cose nuove. Incontro il pubblico che è trasversale, di ogni età, che mi ripaga delle fatiche, che si commuove. Un pubblico anche di varie nazionalità: incontro spesso ragazzi e ragazze africani, che magari hanno anche fatto realmente il viaggio. Ogni volta c’è un dibattito nuovo, degli scambi molto emozionanti.

Da quando ha iniziato a pensare il film, tre anni fa, tante cose sono cambiate: oggi si discute di realizzare CPR in Italia, o di introdurre la “cauzione” di 5 mila euro per non essere lì reclusi. Che ne pensa?

Non entro nei dibattiti politici, ma credo personalmente che il modo migliore per combattere i trafficanti di esseri umani e questa profonda ingiustizia, sia quella di mettere ordine nei visti e regolarizzare i flussi di entrata, in modo che queste persone possano venire e tornare liberamente, senza dover metter in gioco la loro vita, come fanno i ragazzi di tutto il mondo. Molti arrivano, ma hanno anche il desiderio di tornare a casa.

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