AGI – Con il Natale è arrivato anche il tradizionale torneo di pesi massimi per il primato di fine anno in libreria. Tra quelli che picchiano più forte e preciso c’è sicuramente il creatore di Rocco Schiavone, Antonio Manzini. Mentre un grande successo arride alla trasvolata oltreoceano della sua saga in ‘Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Sudamerica?’ (Sellerio) l’AGI l’ha incontrato.
Cosa si prova nell’intimo trovandosi al top in classifica?
Oltre alla soddisfazione ci si sente onorati quando succede, mentre si tiene a mente che le vere graduatorie di valore non coincidono con quelle di vendita: discendono dal piacere delle persone nel leggere i libri.
Di recente l’insigne linguista Valeria Della Valle l’ha pubblicamente definita un grande autore: commenti?
Lo definirei il più bel complimento ricevuto in tutta la vita. Dopo averlo ascoltato sono rimasto suonato come un pugile per un paio ore: nemmeno immaginavo che la Direttrice del Dizionario Treccani mi leggesse. Per farle capire: ho provato la stessa gioia di un calciatore chiamato da Ancelotti al Real Madrid.
Serialità va d’accordo con letteratura?
Alcuni grandi autori sono riusciti ad accumunarle: Simenon, Camilleri, Izzo. Ma è complicato: godi del vantaggio di conoscere già i protagonisti in campo, camminando sul bilico dell’orrido di ripetitività e banalizzazione. Il punto di salvezza è tenere alta e originale la lingua. Ma non tutti sono Camilleri. Comunque in linea teorica le due cose non si escludono: serialità e letteratura vuol dire anche Conan Doyle.
Tecnicamente, cosa rende la scrittura buona scrittura?
Credo in poche regole: essere il più precisi possibile quando si descrivono sentimenti e azioni che li esprimono, trovare parole appropriate al concetto da rendere, limitare avverbi e termini di poca significanza, perseguire specificità della voce per fatti e personaggi. A seconda della storia, o del momento, ne va cercata una diversa: drammatica, ironica, colorita, o magari speziata di neologismi dialettali. Ma soprattutto, per metterle in modo chiaro sulla pagina, è fondamentale avere idee chiare su cosa si vuole scrivere.
Lei cosa vorrebbe scrivere, ma non ha il tempo?
Il problema non è mai il tempo, sono le capacità. Non mi sento autore all’altezza di alcune idee che pure coltivo, e così per adesso le lascio chiuse nella mente. Un giorno mi auguro di diventare abbastanza bravo da liberarle in parole.
Un tema del suo ultimo libro è l’amicizia: se lei fosse Rocco Schiavone quale dei suoi compagni giovanili sarebbe Niccolò Ammaniti?
Nel caso di specie parlerei più di fratellanza. Niccolò ha segnato la mia carriera d’autore proponendo ad Einaudi un nostro racconto per la raccolta ‘Crimini’ quando avevo appena un libro alle spalle. Inoltre, sempre ai miei inizi, mi ha offerto di sceneggiare 2 film tratti da sue opere. E fatto osservare la scrittura da angoli che non sospettavo. La nostra chimica rende tuttora impossibile qualsiasi forma di serietà, quando siamo insieme, ciò nonostante abbiamo almeno 7 o 8 storie pronte che però alla fine non scriviamo mai. Ma mi piacerebbe molto tornare a lavorare a 4 mani con lui, non ho mai riso come quando l’abbiamo fatto.
Nel costruire un personaggio perfetto, quanto ha contato per lo scrittore essere un attore?
Ora che mi ci fa pensare, so scrivere solo se mi immedesimo nei personaggi, e così facendo subisco una metamorfosi anche fisica, sudo. Sarà stato il teatro: lo studio di testi da rappresentare ti apre la mente su ciò che può appartenere a un carattere o meno, a partire dal fatto che le sue contraddizioni non devono diventare controsensi. Si pensa alla parte ogni giorno, aggiungendo elementi e rendendola più complessa. Dalla tridimensionalità accennata di un bassorilievo pian piano comincia a somigliare a una statua che puoi vedere da più lati girandoci intorno.
A volte prova verso Schiavone quello che Connery provava verso Bond?
Non so cosa provasse Connery, ma di certo io non odio Schiavone: dopo dieci anni il rapporto tiene e ci vogliamo bene, anche perché sta invecchiando pure lui. E questo mi diverte.
Il titolo scoliano dell’ultimo libro la tradisce, lei avrebbe voglia di dirigere un film.
Per niente. Anni fa ne girai uno che detiene il record del minor budget nella storia del cinema: 230 mila euro. Era una sfida, con attori a costo zero, anzi a prezzo di costo: un’esperienza divertente che non ripeterei più.
Come mai la tv non la scopre come conduttore?
Perche oltre che non interessato non sarei in grado. Idealmente mi piacerebbe fare programmi intelligenti – come dicevano Cochi e Renato -, ma andare in tv significa avere una velocità di pensiero superiore alla media. Penso a Cucciari o Vergassola. Per di più non conosco l’ambiente e mi sentirei fuor d’acqua.
Va a cena con Giallini: chi dei due si sente in dovere di pagare il conto?
Non ci ho mai pensato, se ne occupava sempre la produzione le volte che è successo. Ma io pago molto volentieri quando sono in compagnia di qualcuno a cui voglio bene.