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Al via nel Veneziano il Festival Internazionale del teatro di strada 

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AGI – Saranno oltre venticinque gli artisti e le compagnie, provenienti da tutto il mondo, che in occasione della XXVIII Edizione si sono dati appuntamento a Caorle, suggestivo borgo sul mare, dal 29 agosto al 3 settembre, per dar vita alla magia de “La Luna nel Pozzo”, festival internazionale di Teatro di Strada.

Ed è proprio alla strada, come luogo di scoperta e crocevia tra mondi differenti, che guarda questa XXVIII Edizione, che fa proprio il monito di Jack Kerouac:  «Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo. Non può finire in nessun altro posto, no?». E da tutto il mondo arrivano gli spettacoli che in questo 2023 animeranno le piazze e delle calli della “Piccola Venezia” in un continuo mescolarsi tra i generi e una contaminazione tra artisti e pubblico: Kenia, USA, Argentina, Repubblica Ceca, Germania, Francia e naturalmente l’Italia, dove “La Luna nel Pozzo”, per la sua alta qualità artistica,  è tra i festival di teatro di strada riconosciuti dal Ministero della Cultura per il triennio 2022-2024. 

«Camminare, mettersi in movimento è insito nella natura dell’uomo, abbiamo l’urgenza di esplorare, scoprire, confrontarci – racconta Marco Caldiron direttore artistico de “La luna nel Pozzo” – Agli albori dell’umanità, dal centro dell’Africa, l’uomo si è incamminato per il mondo e da allora la nostra vita è un continuo spostarsi, seguire percorsi, raggiungere nuovi luoghi, siano questi fisici o dell’anima. La strada ci appartiene, nella strada troviamo nuovi mondi e nuove umanità con cui confrontarci e nella strada possiamo anche imbatterci nell’arte, nel teatro, nella musica, nella poesia. Camminiamo dal nostro primo giorno fino all’ultimo, sempre circondati da poesia».

Dall’Africa arriveranno gli Afro Jungle Jeegs, gruppo nomade e collettivo di performer keniota che proporrà un originale percorso artistico mettendo in scena in danza, acrobatica e musica. Il Festival porterà inoltre in prima nazionale lo spettacolo di circo contemporaneo Toca Toc della compagnia spagnola Cia Pakipaia, i cui protagonisti evocheranno grandi momenti del cinema e famosi successi musicali, in un viaggio esilarante, assurdo e divertente. Sempre per la prima volta il pubblico potrà assistere a Collection di Filip Zahradnický, artista della Repubblica Ceca che utilizza la giocoleria, la manipolazione degli oggetti e il movimento come principali mezzi espressivi per generare situazioni surreali che mettono in competizione il circo contemporaneo e le mostre d’arte. Direttamente dagli Stati Uniti partirà il viaggio sulle montagne russe dell’acrobata Noah Chorny, mentre l’argentino manoAmano Circus Company nel nuovo show NOSO3 con il palo cinese porterà il pubblico in un mondo onirico in cui gli oggetti sfuggono alla gravità. Complicità e sincerità sono gli ingredienti di Fin demain del duo franco-tedesco Zirkus Morsa, naufraghi persi sulla riva della loro immaginazione, in un mondo che rischia di capovolgersi. Acrobatica e clownerie sono gli ingredienti di Oveja Negra degli spagnoli Duo Laos, omaggio a tutte quelle persone che hanno dovuto nascondere la propria identità per svilupparsi e sopravvivere.

Il Festival verrà inaugurato martedì 29 agosto dalla performance itinerante Hopper in a box firmata da Carichi Sospesi e Farmacia Zooè, che tra le vie, le piazze e i negozi di Caorle daranno vita a tableaux vivants dedicati al pittore americano Edward Hopper, attraverso i corpi e le voci di sei fra attori e attrici. 

A partire dal 30 agosto fino al 3 settembre, non ci sarà disciplina di teatro di strada che non avrà il suo momento: l’acrobatica di A Dúo Andaban, della Compagnia Rasoterra, del DuoFlosh e del Duo Un Pie; l’equilibrismo e le evoluzioni dell’argentino Duo Patagonia; le marionette a filo di Alex Piras; gli spettacoli di giocoleria dello svizzero Collectif Acrocinus e degli italiani Nicolò Nardelli e Simone Romanò; il teatro manuale di Jacopo Tealdi #quellodellemani, spettacolo innovativo, originale e creativo in cui le due mani dell’artista raccontano storie, danzano e dialogano con il pubblico;  la magia di Mago Mpare e Max Maccarinelli. Non mancherà la musica, con le esibizioni di Filippo Brunetti, di Henri Buking e della Rusty Brass Band, che attraverserà il centro storico di Caorle al ritmo di funk, rock e sonorità balcaniche. Non potrà infine mancare il fuoco con gli Al-Kimiya in uno spettacolo di manipolazione di oggetti infuocati che unisce tecnica, azione e magia. Un’alternanza di quadri scenici in cui le fiamme danzano con i corpi in movimento e dove la manipolazione tecnica si armonizza con leggi gravitazionali  dell’universo. 

Al teatro più tradizionale sarà dedicato Achab di Ullallà Teatro e Compagnia DinDonDown, laboratorio teatrale formata da persone con disabilità. Partendo dal Moby Dick di Melville trasposto in chiave contemporanea, la pièce vuole cercare di andare in profondità per guardare non solo alla disabilità, per osservare tutte le cose che ci circondano in un modo diverso. 

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Ricostruita la vita degli schiavi a Pompei [VIDEO]

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AGI – Una nuova stanza, con i suoi arredi, destinata agli schiavi. È l’ultima ‘sorpresa’ degli scavi in corso nella villa romana di Civita Giuliana, a circa 600 metri dalle mura dell’antica Pompei. Una situazione di precarietà e subalternità documentata da reperti unici perché posizionati lì dove erano in quella giornata i fine ottobre del 79 d.C., quando il Vesuvio seppellì le città ai suoi piedi.

Un’immagine di quasi 2000 anni fa, realizzata con la tecnica dei calchi, esistente solo a Pompei e dintorni. Materiali quali mobili e tessuti, nonché corpi di vittime dell’eruzione del 79 d.C., sono stati coperti dalla nube piroclastica, divenuta poi terreno solido mentre la materia organica decomposta ha lasciato un vuoto nel terreno: un’impronta che, riempita di gesso, ha rivelato la sua forma originaria.

La nuova stanza, denominata ‘ambiente A’, si presenta diversa da quella già nota come ‘ambiente C’, ricostruita a novembre 2021 in cui erano posizionate tre brande e che fungeva al tempo stesso da ripostiglio. Quello che è emerso adesso fa pensare a una precisa gerarchia all’interno della servitù. Mentre uno dei due letti trovati in queste settimane è della stessa fattura di quelli nell’ambiente C, estremamente semplice e senza materasso, l’altro è di un tipo più confortevole e costoso, noto in bibliografia come letto a spalliera. Nella cinerite sono ancora visibili le tracce di decorazioni color rosso su due delle spalliere.

Oltre ai due letti, nell’ambiente recentemente scavato ci sono due piccoli armadi, anch’essi conservati parzialmente come calchi, una serie di anfore e vasi di ceramica e diversi attrezzi, tra cui una zappa di ferro. Il microscavo di vasi e anfore provenienti dall’ambiente C ha nel frattempo restituito tre roditori, due topolini in un’anfora e un ratto in una brocca, posizionata sotto uno dei letti e dalla quale sembra che l’animale cercasse di scappare quando morì nel flusso piroclastico dell’eruzione.

Dettagli che sottolineano ancora una volta le condizioni di disagio igienico in cui vivevano gli ultimi della società dell’epoca. L’esplorazione archeologica della villa di Civita Giuliana, già oggetto di scavi nel 1907-08, è cominciata nel 2017 con una collaborazione tra il Parco Archeologico di Pompei, quale ente competente per la tutela dell’area circostante la città antica, e la procura di Torre Annunziata, che insieme ai Carabinieri aveva scoperto scavi clandestini nell’area della Villa che andavano avanti da anni, arrivando a misure cautelari e processi penali e civili.

“Sappiamo che i proprietari usavano diversi privilegi, tra cui anche la possibilità di formare una famiglia, seppure senza alcuna tutela legale, per legare alcuni schiavi più strettamente alla villa, anche con la finalità di averli come alleati nel sorvegliare gli altri. Quello che emerge qui è la struttura sociale della servitù che doveva impedire fughe e forme di resistenza, anche perché mancano tracce di grate, lucchetti e ceppi. Il controllo avveniva principalmente tramite l’organizzazione interna della servitù, e non tramite barriere e vincoli fisici – spiega il direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel – siamo impegnati a continuare le ricerche e progettare la fruizione di un luogo che, come nessun altro del mondo antico racconta la quotidianità degli ultimi. In occasione della riapertura dell’Antiquarium di Boscoreale il prossimo autunno, prevediamo una sala per informare il pubblico sugli scavi in corso, gli stessi che, sotto la direzione del mio predecessore, Massimo Osanna, hanno portato alla scoperta del carro cerimoniale recentemente in mostra a Roma, alle Terme di Diocleziano. Vorrei ringraziare, oltre alla squadra impegnata nello scavo archeologico, la procura guidata da Nunzio Fragliasso per l’eccellente lavoro svolto”.

Sangiuliano: “Conferma delle necessità di proseguire la ricerca”

“Quanto ricostruito conferma la necessità di proseguire la ricerca scientifica in un luogo che, grazie all’opera della magistratura e dei Carabinieri, è stato strappato al saccheggio e al traffico illecito di beni archeologici per raccontare momenti notevoli della vita quotidiana dell’antichità. Quel che si sta apprendendo sulle condizioni materiali e sull’organizzazione sociale dell’epoca apre nuovi orizzonti agli studi storici e archeologici. Pompei rappresenta un unicum che tutto il mondo ci invidia. Conclusa l’operazione Grande Pompei, progettiamo nuove iniziative e nuovi finanziamenti per proseguire nella ricerca e nella tutela”. Lo scrive in una nota il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, dopo l’annuncio del ritrovamento di un nuovo ambiente destinato agli scavi nella villa romana di Civita Giuliana, di cui attraverso calchi si sono recuperate anche gli arredamenti.

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Nanni Moretti, uno “splendido 70enne”

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AGI – Nanni Moretti, splendido 70enne. Oggi l’attore e regista romano, nato per caso a Brunico il 19 agosto 1953, taglia oggi il traguardo dei 70 anni. Ed è inevitabile ricordare la sua battuta di ‘Caro diario’ quando urlava che lui era, nel 1993, “uno splendido quarantenne”.

Oggi festeggia 70 anni e lo fa dopo aver regalato al suo pubblico il suo film testamento (o, meglio dire, ‘summa morettina’), ‘Il sol dell’avvenirè dove parla molto di se stesso, fra autocitazioni, versioni aggiornate di celebri scene (vedi il monologo sulle scarpe di ‘Bianca’ diventato il monologo sulle ciabatte) e un po’ di nostalgia. Un regista che ha segnato un’epoca, che ha avuto il merito di avere una voce critica all’interno della sinistra di cui si è sentito rappresentante, al punto di aver inventato una sorta di movimento chiamato ‘i girotondi’ spazzato via dall’onda d’urto berlusconiana.

In quella sinistra che ha cercato di bacchettare e di spingere verso la sua naturale posizione (chi non ricorda il suo appello nel film ‘Aprilè del 1998 all’allora leader del Pd impegnato in un confronto tv con Berlusconi: “D’Alema, dì qualcosa di sinistra! Dì una cosa anche non di sinistra, di civiltà. D’Alema dì una cosa, dì qualcosa! Reagisci!”).

Un regista, Nanni Moretti, che ha dimostrato di essere un grande autore, un ottimo artista in grado di vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes con lo struggente ‘La stanza del figlio’. Come ha spiegato lo stesso Moretti qualche anno fa ospite alla Festa del cinema di Roma, la sua avventura nel mondo del cinema è iniziata da adolescente, anche se ha confessato di aver cominciato tardi ad essere uno “spettatore forte”, dopo i 15 anni, quando alla fine della scuola e degli allenamenti di pallanuoto si recava nei cinema a vedere i film degli anni ’60. Non solo quelli italiani, ha raccontato. Registi che “rifiutavano il cinema e la società avuti in eredità e cercavano di prefigurare un nuovo cinema. E una nuova società”. 

Nel 1972, dopo la maturità, Nanni Moretti ha fatto la sua scelta. “Il mio ex compagno Pietro Veronese, oggi giornalista – ha raccontato – mi chiese cosa volevo fare e io, vergognandomi, risposi che non avrei fatto l’università e che avrei fatto il cinema. Mi chiese se volevo fare l’attore o il regista – ha detto – e io gli ho risposto che volevo fare sia l’uno che l’altro”. E cosi’, ricorda Moretti, iniziai a propormi e frequentare i set dei Taviani, Peter Del Monte e Bellocchio come assistente volontario.

“La stessa confusione che avevo io – ha aggiunto – la portavo sui set: chiedevo ai registi di assisterli ma poi aggiungevo: ‘se c’è un ruolo da attore io sono pronto…'”. Nel 1974 il suo primo mediometraggio, ‘Come parli fratè, con Beniamino Placido (“A cui ho fatto togliere gli occhiali perché si vedesse la sua miopia”, ha spiegato), una rilettura alla Moretti de ‘I promessi sposi’ con lo stesso regista nei panni di un cupo don Rodrigo. Un primo tentativo di cinema che risentiva dell’influenza dei fratelli Taviani (“la telecamera fissa su di me”) e di Carmelo Bene (“La morte di fra Cristoforo” con acqua, sangue e un liquido nero che scorre sulla faccia). Dopo aver recitato nei suoi film e aver fatto un paio di ruoli minori in ‘Padre padrone’ dei Taviani e ‘Domani accadrà’ del suo ex assistente Daniele Luchetti, nel 1991 il primo ruolo da protagonista in ‘Il portaborse’ sempre di Luchetti. Un ruolo in cui tira fuori tutta la sua istintiva e naturale antipatia che dà un valore aggiunto a un personaggio spregevole e arrogante.

“È stato lo stesso Luchetti a volermi nel suo film – ha raccontato Moretti – per spiazzare il pubblico”. Un ruolo importante a cui ne faranno seguito altri, per altri registi, dove ha recitato sempre convinto che l’attore debba capire “cosa il regista vuole raccontare attraverso il personaggio”. “Non mi piacciono gli attori che si identificano in un personaggio al punto di scomparire”, ha detto. Per Moretti solo tre film come attore dopo quello di Luchetti – ‘La seconda volta’ di Mimmo Calopresti nel 1995, ‘Caos calmo’ di Antonello Grimaldi nel 2008 e ‘Il colibrì’ di Francesca Archibugi nel 2022 – oltre a un ‘gran rifiuto’: “Kieslovsky mi voleva come attore in ‘La doppia vita di Veronica’ e io accettai – ha raccontato – poi mi sono ammalato di tumore e non se n’è fatto piu’ niente”. Gia’, il tumore. Colpito da linfoma di Hodgkin, ha raccontato la sua malattia nell’ultimo grande film personale, ‘Caro diario’ del 1994. Col tumore Moretti ha dovuto poi tornare a combattere vent’anni dopo. Anche stavolta ha vinto lui.

E anche stavolta lo ha raccontato, ma lo ha fatto con un cortometraggio che ha presentato alla stampa nel 2017 alla Festa del cinema, un film di 8 minuti da titolo ‘Autobiografia dell’uomo mascherato’. Un video in cui gira per Roma (lungotevere, Auditorium parco della musica, Nuovo Sacher) indossando una rete che lo fascia fino a mezzo busto. Le immagini scorrono e Moretti commenta le varie scene. Nell’ultima si vede l’attore sdraiato a cui montano la struttura. La scena clou è quella successiva: sdraiato su un letto mobile, con la rete-maschera, viene introdotto sotto un macchinario di radioterapia. “Dopo vent’anni, in un’altra parte, è tornato il tumore – ha detto Moretti – e questa è una delle tante sedute di radioterapia a cui mi sono sottoposto”.

Moretti è regista, attore, sceneggiatore. Ma anche produttore. E, come sempre, anche in questa veste è appassionato e ‘rigido’. Un’avventura parallela a quella di regista e attore iniziata oltre trent’anni fa con Angelo Barbagallo. “Producemmo i nostri primi due film di due esordienti – ha raccontato – ‘Notte italiana’ di Carlo Mazzacurati, che avevo conosciuto giocando a calcetto, e ‘Domani accadrà’ di Daniele Luchetti, che era stato mio assistente”.

A differenza dell’immagine che dà di sé nei suoi film, Moretti produttore è un uomo tranquillo. Almeno a suo dire. “Non sono come quei registi che diventano produttori per ‘sadizzare’ i registi meno noti. Niente sadismo – ha aggiunto – né la volontà, come spesso accade, di produrre un sottoprodotto della mia filmografia o di realizzare un film per poter dire: ‘vedete, io ci ho provato purtroppo non c’è ricambio'”. Moretti invece ha spiegato di aver fatto questa scelta per “lavorare con persone con cui sto bene e per restituire un po’ della fortuna che ho avuto io”. Nessun intervento sul set, poi, ma certamente una richiesta di partecipare in fase di scrittura, di casting e di montaggio e di farlo, comunque, “sempre con spirito da spettatore e non da regista”. Moretti vive il cinema a 360 gradi. Da regista ad attore, da produttore a esercente (è proprietario del cinema Nuovo Sacher di Roma), da critico a giurato.

Proprio in quest’ultimo ruolo si è ‘esibito’ in una performance eccezionale. A raccontarla è stato lo stesso Moretti. “A Cannes, nel 1997, sono riuscito a convincere i miei colleghi a premiare Kiarostami: all’inizio eravamo 9 contro uno. Alla fine siamo stati 5 a 5 con un ex aequo (‘Il sapore della ciliegia’ di Kiarostami e ‘L’anguilla’ di Imamura, ndr). Li ho costretti a discutere per due ore e alla fine erano stressatissimi”, ha detto. Ed è assai credibile. Oggi, a 70 anni, per un attimo lascia il cinema per dedicarsi al teatro: curera’ la regia di due atti unici di Natalia Ginzburg, ‘Dialogo’ e ‘Fragola e panna’ con Valerio Binasco, Daria Deflorian, Alessia Giuliani, Arianna Pozzoli, Giorgia Senesi. Prima nazionale al Teatro Carignano di Torino il 9 ottobre. Un nuovo inizio per Moretti? 

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Il tristellato Uliassi mette in menù gli “speghetti” di Checco Zalone

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AGI – “Un giorno è venuto qui a mangiare Checco Zalone e mi ha invitato a una cena dove avrebbe cucinato gli spaghetti all’assassina. Piatto tipico di Bari che ultimamente nei social sta spopolando”, racconta al Gambero Rosso l’ottimo chef Mauro Uliassi, sempre in testa a tutte le classifiche gastronomiche, il cui ristorante a Senigallia “è valutato con 3 stelle Michelin, 5 cappelli Espresso, 3 forchette del Gambero Rosso”, come si evince dal suo sito ufficiale.

E a lui in testa si è accesa subito la lampadina della creatività e della replicabilità dell’idea. Gli spaghetti all’assassina non è tuttavia né una ricetta antica né un piatto di recupero, come in genere si ritiene, bensì “un piatto antico della tradizione barese”, la cui nascita, risale al 1967 quando Enzo Francavilla, foggiano, titolare del Sorso Preferito a Bari, li inventò di sana pianta per due clienti che si erano accomodati ai tavoli della sua trattoria. E da quel momento “gli spaghetti all’assassina entrarono a far parte del menu del Sorso Preferito a Bari”, per altro ancora in attività, conquistando altri clienti e viaggiando di ristorante in ristorante, fino a divenire uno dei piatti simbolo di Bari.

Una storia intrigante che ha conquistato anche Mauro Uliassi, che così racconta: il piatto: “Nasce da una chiacchierata con Luca Medici, in arte Checco Zalone, una persona straordinaria, così come tutta la compagnia con la quale è venuto qui a pranzo. A un certo punto mi ha invitato a una festicciola nel suo hotel la sera, dove avrebbe cucinato gli spaghetti all’assassina. Grande classico di Bari che, diciamolo, non è tecnicamente corretto: in pratica gli spaghetti vengono messi a crudo nel pomodoro e poi man mano si aggiunge il brodo fatto con la conserva, ma il vero segreto è di farli attaccare alla padella più e più volte. Eppure, con i miei ragazzi, ci allettava molto l’idea di inserire questo piatto nel Lab”. 

Il risultato è “aver estrapolato la caratteristica principale della pasta all’assassina, la sua piccantezza, creando una salsa all’arrabbiata dove al posto del pomodoro abbiamo utilizzato il peperone rosso lungo, che ha una piccantezza di livello medio e poco persistente. Dopodiché, con i gambi di prezzemolo, abbiamo fatto una specie di tabbouleh, l’aglio lo abbiamo messo in infusione nell’olio e a cristalli leggermente tostato, e ci abbiamo aggiunto la ‘nduja e un olio fatto con l’ajowan, che ha un marcato sentore cuminoso”. 

La pasta, poi, va resa croccante senza bruciarla mentre la cottura tradizionale non lo permette. Va invece azzeccato il punto di cottura dove la pasta cede ed è poi facile da arrostire. Formato ideale: il fusillone di Pietro Massi cucinato in acqua per 34 minuti a fronte dei 12 minuti normali. Una volta stracotto viene freddato e arrostito in padella e sotto la salamadra, ottenendo una tostatura che di fatto è due passi indientro rispetto alla bruciatura. Ecco servita la pasta all’assassina di Uliassi: fusillo in bianco arrostito (morbido al centro e croccante fuori) con sugo all’arrabbiata di peperone rosso, ‘nduja, cristalli di aglio tostato, olio di ajowan e tabbouleh di prezzemolo. Il tutto accende le papille.

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Robert De Niro fa 80 anni 

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AGI – Robert de Niro, nato a New York il 17 agosto 1943, compie 80 anni. E a New York, precisamente a Greenwich Village, festeggerà il suo compleanno più importante senza dimenticare le sue origini, scegliendo un ristorante rigorosamente italiano.

Tutti infatti sanno che i nonni paterni, Giovanni Di Niro (un errore di pronuncia ha comportato la trascrizione De Niro) e Angelina Mercurio erano originari di Ferrazzano, in provincia di Campobasso. L’Italia è praticamente la sua seconda patria, ed ha anche la cittadinanza.

E’ cresciuto con la madre a Little Italy ed ama definirsi italo-americano. Recentemente lo abbiamo visto a Napoli con Paolo Sorrentino ma la sua vera casa resta New York. Nel corso della sua carriera è stato gangster e poliziotto, detective e criminale, anche comico.

Vanta due premi Oscar e ben sette figli, l’ultimo lo ha avuto a 79 anni. Ora à in lizza per un terzo Oscar, per The Monn Killers, con il suo amico di altrettante origini italiane, Martin Scorsese. 80 anni passando per “Toro Scatenato” (1980), “Taxi Driver” (1976), “Il Padrino Parte II” (1974), “New York, New York” (1977), “Il Cacciatore” (1978), “C’era una volta in America” (1984), “The Mission” (1986), “Angel’s Heart” (1987), “Uno di noi” (1990), “Cape Fear” (1991), “Una storia del Bronx” (1993), “Casino'” (1995), “Heat” (1995), “Sleepers” (1996), “La stanza di Marvin” (1996), “Jackie Brown” (1996) o “Ronin” (1998).

Tutti questi, sono solo “alcuni” dei titoli delle pellicole che ha interpretato. Con Scorsese che era del suo stesso quartiere, ha realizzato una dozzina di film, tutti capolavori. Brian de Palma lo scopri’: porto’ sul grande schermo un bel ragazzo dagli occhi nerissimi con quell’inconfondibile neo sulla guancia.

Nell’immaginario comune, nonostante le tante pellicole, siamo abituati a ricordarlo prima di tutto per l’interpretazione di Vito Corleone nella seconda parte de “Il Padrino” e per il mitico “C’era una volta in America”. Si dice che De Niro abbia trascorso ben 4 mesi in Sicilia per imparare a recitare nel fatidico accento. Altre “metamorfosi” le fece per recitare in “Toro Scatenato”, prendendo ben 27 chili.

Sapeva trasformarsi sul set in uno psicopatico, in assassino, quasi sempre in un antieroe, persino nel diavolo. Tenero in “Manuale d’amore 3” in cui interpreta la parte di un prof universitario americano residente a Roma dalla morte della moglie, che vive un rapporto cui tenta di sottrarsi in tutti i modi, con la giovae ed esuberante figlia del portiere, interpretata da Monica Bellucci.

Per lei si esibirà in un celebre spogliarello. Lunga, lunghissima la carriera di Robert che ha interpretato anche ruoli comici come in “Mi presenti i tuoi?” e relativi sequel, con Ben Stiller. Si è anche cimentato nella regia con l’esordio nel 1993 autodirigendosi al fianco di Chazz Palminteri nel film “Bronx”, e poi mettendosi dietro la macchina da presa per altre pellicole. Decisamente movimentata la sua vita sentimentale.

L’italoamericano Robert De Niro ha sette figli nati da quattro donne diverse: con Diahnne Abbott – con cui è stato sposato dal 1976 al 1988 – ha adottato una figlia, Drena (1971), nata da una precedente relazione della moglie e ha avuto il figlio biologico Raphael (1976).

Nel 1995 da Toukie Smith sono arrivati i gemelli Julian Henry e Aaron Kendrik, tramite madre surrogata. Nel 1997 il matrimonio con Grace Hightower cui segue la nascita di Elliot (1998). Nel 2011 nasce, ancora da madre surrogata, Helen Grace sempre dalla Hightower. E nel maggio 2023 ecco l’ultimo figlio: a 79 anni, dalla storia con Tiffany Chen, nasce Gia Virginia.

E’ anche nonno di quattro nipoti. Il 18 ottobre 2006 Robert De Niro è stato naturalizzato italiano, pur conservando la cittadinanza statunitense. Per festeggiare il suo compleanno ha chiesto ai fan di votare il film preferito da lui interpretato. In Italia è stato notoriamente doppiato da Ferruccio Amendola che poi ha dovuto, per forza di cose, cedere il passo a Stefano De Sando.

E alla morte di Gianni Minà, qualcuno dagli archivi ha tirato fuori una celebre foto da “Checco er Carrettiere”, nota trattoria romana, che ritrae De Niro in compagnia del giornalista italiano, di Sergio Leone, Muhammad Ali e Garcia Marquez.

Si dice che la calamita per metterli tutti insieme in quell’invidiabile gruppo, fosse proprio il pugile. Intanto è stata storia. 

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Robert De Niro fa 80 anni 

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AGI – Robert de Niro, nato a New York il 17 agosto 1943, compie 80 anni. E a New York, precisamente a Greenwich Village, festeggerà il suo compleanno più importante senza dimenticare le sue origini, scegliendo un ristorante rigorosamente italiano.

Tutti infatti sanno che i nonni paterni, Giovanni Di Niro (un errore di pronuncia ha comportato la trascrizione De Niro) e Angelina Mercurio erano originari di Ferrazzano, in provincia di Campobasso. L’Italia è praticamente la sua seconda patria, ed ha anche la cittadinanza.

E’ cresciuto con la madre a Little Italy ed ama definirsi italo-americano. Recentemente lo abbiamo visto a Napoli con Paolo Sorrentino ma la sua vera casa resta New York. Nel corso della sua carriera è stato gangster e poliziotto, detective e criminale, anche comico.

Vanta due premi Oscar e ben sette figli, l’ultimo lo ha avuto a 79 anni. Ora à in lizza per un terzo Oscar, per The Monn Killers, con il suo amico di altrettante origini italiane, Martin Scorsese. 80 anni passando per “Toro Scatenato” (1980), “Taxi Driver” (1976), “Il Padrino Parte II” (1974), “New York, New York” (1977), “Il Cacciatore” (1978), “C’era una volta in America” (1984), “The Mission” (1986), “Angel’s Heart” (1987), “Uno di noi” (1990), “Cape Fear” (1991), “Una storia del Bronx” (1993), “Casino'” (1995), “Heat” (1995), “Sleepers” (1996), “La stanza di Marvin” (1996), “Jackie Brown” (1996) o “Ronin” (1998).

Tutti questi, sono solo “alcuni” dei titoli delle pellicole che ha interpretato. Con Scorsese che era del suo stesso quartiere, ha realizzato una dozzina di film, tutti capolavori. Brian de Palma lo scopri’: porto’ sul grande schermo un bel ragazzo dagli occhi nerissimi con quell’inconfondibile neo sulla guancia.

Nell’immaginario comune, nonostante le tante pellicole, siamo abituati a ricordarlo prima di tutto per l’interpretazione di Vito Corleone nella seconda parte de “Il Padrino” e per il mitico “C’era una volta in America”. Si dice che De Niro abbia trascorso ben 4 mesi in Sicilia per imparare a recitare nel fatidico accento. Altre “metamorfosi” le fece per recitare in “Toro Scatenato”, prendendo ben 27 chili.

Sapeva trasformarsi sul set in uno psicopatico, in assassino, quasi sempre in un antieroe, persino nel diavolo. Tenero in “Manuale d’amore 3” in cui interpreta la parte di un prof universitario americano residente a Roma dalla morte della moglie, che vive un rapporto cui tenta di sottrarsi in tutti i modi, con la giovae ed esuberante figlia del portiere, interpretata da Monica Bellucci.

Per lei si esibirà in un celebre spogliarello. Lunga, lunghissima la carriera di Robert che ha interpretato anche ruoli comici come in “Mi presenti i tuoi?” e relativi sequel, con Ben Stiller. Si è anche cimentato nella regia con l’esordio nel 1993 autodirigendosi al fianco di Chazz Palminteri nel film “Bronx”, e poi mettendosi dietro la macchina da presa per altre pellicole. Decisamente movimentata la sua vita sentimentale.

L’italoamericano Robert De Niro ha sette figli nati da quattro donne diverse: con Diahnne Abbott – con cui e’ stato sposato dal 1976 al 1988 – ha adottato una figlia, Drena (1971), nata da una precedente relazione della moglie e ha avuto il figlio biologico Raphael (1976).

Nel 1995 da Toukie Smith sono arrivati i gemelli Julian Henry e Aaron Kendrik, tramite madre surrogata. Nel 1997 il matrimonio con Grace Hightower cui segue la nascita di Elliot (1998). Nel 2011 nasce, ancora da madre surrogata, Helen Grace sempre dalla Hightower. E nel maggio 2023 ecco l’ultimo figlio: a 79 anni, dalla storia con Tiffany Chen, nasce Gia Virginia.

E’ anche nonno di quattro nipoti. Il 18 ottobre 2006 Robert De Niro è stato naturalizzato italiano, pur conservando la cittadinanza statunitense. Per festeggiare il suo compleanno ha chiesto ai fan di votare il film preferito da lui interpretato. In Italia è stato notoriamente doppiato da Ferruccio Amendola che poi ha dovuto, per forza di cose, cedere il passo a Stefano De Sando.

E alla morte di Gianni Minà, qualcuno dagli archivi ha tirato fuori una celebre foto da “Checco er Carrettiere”,nota trattoria romana, che ritrae De Niro in compagnia del giornalista italiano, di Sergio Leone, Muhammad Ali e Garcia Marquez.

Si dice che la calamita per metterli tutti insieme in quell’invidiabile gruppo, fosse proprio il pugile. Intanto è stata storia. 

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Oppenheimer, il dramma dell’uomo che inventò l’atomica

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AGI – Con ogni probabilità il film evento di quest’anno sarà ‘Oppenheimer’ di Christopher Nolan, in sala in Italia dal 23 agosto. La pellicola è uscita negli Usa e in altri Paesi ed è già record di incassi al box office mondiale: al 15 agosto 2023 ha incassato oltre 266 milioni di dollari nel Nord America e 384 milioni di dollari nel resto del mondo, per un totale complessivo di oltre 650 milioni di dollari. Un ottimo risultato per Nolan che probabilmente vedrà questa pellicola salire sul suo personalissimo podio insieme al secondo e terzo capitolo di Batman (entrambi hanno incassato circa un miliardo di dollari) e a ‘Inception’, il cui incasso totale di 728,5 milioni di dollari potrebbe essere superato dal nuovo film. 

Robert Oppenheimer è tra le figure più geniali e controverse del XX secolo. Come direttore del laboratorio di Los Alamos, supervisionò l’operazione, riuscita, per battere i nazisti nella corsa allo sviluppo della prima bomba atomica, una svolta destinata ad avere importanti e drammatiche conseguenze sul genere umano e a rendere lo scienziato il padre delle armi nucleari. Un grande organizzatore, carismatico e competente, che paradossalmente fu ‘perseguitato’ fin dall’inizio della sua missione da sospetti di tradimento per le sue simpatie per il comunismo. 

Sulla figura di questo scienziato il cui nome è legato al simbolo di morte per eccellenza, la creazione di un ordigno in grado di distruggere il mondo, sono stati scritti molti libri. Il più importante di tutti, ripubblicato in Italia da Bompiani, è ‘Robert Oppenheimer – L’uomo che inventò la bomba atomica’ (Tascabili Saggistica, pagg. 1216; prezzo: 28 euro), scritto nel 2014 da Ray Monk, professore emerito di filosofia all’Università di Southampton, acclamato autore di ‘Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio’ (Bompiani 1991, Tascabili Bompiani 2000), che gli è valso il John Llewellyn Rhys Prize e il Duff Cooper Prize, e di una biografia di Bertrand Russell in due volumi.

In questo libro monumentale e accuratissimo Ray Monk, scava più profondamente di chiunque altro nelle motivazioni di Oppenheimer e nella sua complessa personalità, attraverso un’indagine sensibile condotta con grande erudizione, che ci restituisce una storia di scoperte, segreti, scelte impossibili e inimmaginabile distruzione.

Un libro nato dalla lettura di ‘Robert Oppenheimer: Letters and Recollections’ di Alice Kimball Smith e Charles Weinerin cui, racconta l’autore, si scopre quanto fosse “un uomo dalle molteplici e affascinanti sfaccettature”, che scriveva poesie e racconti, che avesse una grande cultura e passione per la letteratura francese e “che avesse trovato di così grande ispirazione le scritture hindu da mettersi a imparare il sanscrito allo scopo di leggere nella loro lingua originale”. Per non parlare dei suoi intensi rapporti con i genitori, le ragazze, gli amici e i suoi studenti. 

Monk afferma ancora nella prefazione che il suo obiettivo è quello di produrre “una biografia interna piuttosto che esterna”, che si addentri nella complessità psicologica di Oppenheimer e che leghi più saldamente i suoi contributi alla fisica alla sua vita. Il risultato è un’opera accurata che forse non riesce a entrare così tanto nella psiche dello scienziato come vorrebbe l’autore. I dettagli della fisica di Oppenheimer, benché esposti in modo chiaro, rivelano poco della sua controversa psicologia. Mentre la sua infanzia è ben delineata – figlio privilegiato di ebrei tedeschi non osservanti e prodotto della scuola privata di cultura etica di New York – non apprendiamo quasi nulla del suo matrimonio o del suo rapporto distante con i figli.

Da giovane scienziato, il suo talento e la sua grinta gli consentirono di entrare in una comunità composta dai giganti della fisica del XX secolo – da Niels Bohr a Max Born, da Paul Dirac ad Albert Einstein ed Enrico Fermi – e di giocare un ruolo fondamentale nei laboratori e nelle aule dove il mondo stava per essere cambiato per sempre. Ma quella di Oppenheimer non è stata solo una storia di integrazione, successo scientifico e fama mondiale.

Nella prima parte del libro l’autore descrive la giovinezza di Oppenheimer, figlio di ebrei di origine ebraica tedesca emigrati a New York, ragazzo di eccezionale intelletto, guidato dall’ambizione di superare il suo stato di outsider e di penetrare nel cuore della vita politica e sociale. La seconda parte del libro affronta i temi della seconda guerra mondiale e soprattutto la costruzione della bomba atomica. In questa corposa seconda parte, l’autore si immerge completamente nella vicenda della decisione di sganciare le atomiche sul Giappone, facendo venire fuori il peggio da certi personaggi dell’élite americana, che da liberatori si trasformarono i spietati carnefici.

Monk pone la sua attenzione e quella dei lettori sulla trasformazione vissuta da Robert Oppenheimer, che passò dall’entusiasmo per la ricerca e l’impresa scientifico-bellica al tormento seguito alla scoperta di aver creato un ordigno dall’inaudita potenza distruttiva. Qualunque cosa Oppenheimer abbia fatto per impressionare a fondo il generale di brigata Leslie Groves che lo scelse come direttore del laboratorio della bomba e per motivare gli scienziati di Los Alamos non emerge nel libro.

Anche se appare chiaro che durante un incontro a Berkeley, Oppenheimer colpì il generale per l’ampiezza delle sue conoscenze e, soprattutto, per quella che Groves considerava la sua praticità. Più di ogni altro scienziato con cui il generale aveva parlato, Oppenheimer sembrava capire cosa bisognava fare per passare da teorie astratte ed esperimenti di laboratorio alla realizzazione di una bomba nucleare. Una cosa che tra tutti aveva capito forse il solo generale Groves che difese sempre Oppenheimer dagli attacchi di Fbi, servizi segreti e fanatici anticomunisti che ne chiedevano la sostituzione.

Groves sapeva bene che Oppenheimer era un uomo eccezionale perfette per guidare il laboratorio. Non si trattava solo di un problema di fisica, infatti, bisognava realizzare un’impresa ingegneristica senza precedenti, che doveva progredire mentre si stavano ancora risolvendo i problemi teorici di base.

Oppenheimer riteneva che non ci fosse posto migliore per farlo se non al di fuori delle università, in un laboratorio remoto e centrale. E lo trovò in una zona del New Mexico appena accessibile – un luogo improbabile che Oppenheimer aveva scoperto durante una vacanza a cavallo – che divenne una piccola cittadina abitata dagli scienziati con le loro famiglie a dai militari e non solo un laboratorio nucleare avanzato. Oppenheimer, infatti non si opponeva all’idea che l’operazione fosse supervisionata dai militari e, come osserva Monk, sembrava avere “un senso infallibile di ciò che Groves voleva sentire”.

Ma quando la guerra finì, l’incantesimo si ruppe. Ora il nemico era l’Unione Sovietica e gli appelli di Oppenheimer a evitare la resa dei conti termonucleare condividendo la tecnologia e rinunciando alla bomba all’idrogeno furono usati dai suoi avversari per etichettarlo come un comunista. E si fece appello ai suoi trascorsi in cui risultava simpatizzante del Partito comunista seppure non un suo membro. Si svolsero anche delle ‘udienze di sicurezza’ ma non emerse alcuna prova che Oppenheimer avesse compiuto atti di spionaggio e una commissione per il personale della Commissione per l’Energia Atomica concluse che era un cittadino leale. Ma non era al di sopra di ogni sospetto.

Questo è stato sufficiente per privarlo dell’autorizzazione di sicurezza e per sottoporlo a numerosi processi a fine della guerra. Monk ricorda infine la delusione di Oppenheimer quando capì che gli Usa non avrebbero mai condiviso il segreto della bomba atomica, credendo ingenuamente che i sovietici non sarebbero riusciti a realizzarla. Emblematico l’incontro col presidente Truman al quale disse di sentirsi “le mani sporche di sangue”. Una frase che Truman non capì e che di fatto rappresentò una sorta di congedo dall’esercito parte di quello che il presidente definì “scienziato piagnucoloso”.

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Cultura

La missione di Castellano per l’armistizio

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AGI – Il commendator Raimondi del Ministero Scambi e valute era partito da Roma il 12 agosto 1943 per un estenuante viaggio in treno verso la Spagna. Era stata scelta la linea ferroviaria e non quella aerea sicuramente molto più rapida per attirare di meno l’attenzione della polizia tedesca.

Quel civile, infatti, è in realtà il generale Giuseppe Castellano, il più giovane dello Stato maggiore generale, in missione segreta e su ordine del capo di stato maggiore Vittorio Ambrosio, a sua volta per incarico di Vittorio Emanuele III.

Castellano ha in tasca una lettera di presentazione rilasciatagli dall’ambasciatore britannico presso la Santa Sede, Godolphin d’Arcy Osborne, da consegnare all’ambasciatore a Madrid, Samuel Hoare.

D’Arcy Osborne non può condurre alcuna trattativa con il governo italiano perché questo esula dal suo mandato diplomatico, e neppure può fare da tramite diretto perché si è accorto che lo spionaggio tedesco di Kappler ha violato i suoi codici.

La missione di Castellano, che si basa solo su quella lettera, è delicata e fragilissima: se fosse accaduto qualcosa sarebbe stato immediatamente sconfessato, perché ufficialmente il governo non sapeva nulla della sua trasferta in un Paese neutrale, per di più con documenti falsi.

Le cose erano state fatte come le circostanze permettevano e con mille cautele, tanto da passar sopra al fatto che il pseudo commendator Raimondi doveva interfacciarsi con gli inglesi e non ne parlava la lingua, e il suo documento diplomatico di accredito valeva solo per la Spagna, quando invece la meta finale era Lisbona, in Portogallo.

La parte più rischiosa gravava dunque sulle sue spalle, poiché buona parte del tragitto ferroviario, in Francia, era su territorio controllato dalla Gestapo in stato di allerta su tutto quello che si muoveva dall’Italia, e perché le sue credenziali erano di scarso rilievo.

A nome di chi parlava? E che potere di negoziazione gli era stato conferito? Castellano era comunque riuscito a raggiungere Madrid senza problemi e qui a contattare subito il console Franco Montanari, parente del Maresciallo Badoglio, che parla perfettamente inglese (la madre è americana), al quale si era pure rivolto il ministro degli Esteri Raffaele Guariglia, guarda caso all’insaputa del generale emissario. I due vengono ricevuti nell’Ambasciata britannica da Hoare: questi è un diplomatico esperto, mostra affabilità, assicura che informerà subito Churchill il quale parlerà direttamente a Roosevelt, visto che i due sono impegnati in un vertice politico a Québec.

Poi Hoare scrive a sua volta una lettera di referenze da mostrare all’ambasciatore a Lisbona, Ronald Hugh Campbell. Gi angloamericani, da questo momento, sanno che l’Italia vuole uscire dalla guerra e che ha mosso il primo passo in tale direzione, per quanto in maniera avventurosa e informale. Questo, però, non cambiava minimamente i loro piani militari che, anzi, venivano intensificati per stringere i tempi della resa.

Il giorno stesso dell’arrivo a Lisbona di Castellano e Montanari, il 16 agosto, la città di Foggia viene violentemente bombardata, e così Viterbo.

Gli Alleati sanno che i bombardamenti sono particolarmente avversati dalla popolazione civile che ne scarica le responsabilità sul governo, e questa è un’ulteriore arma psicologica di pressione.

Il primo contatto degli emissari con Campbell avviene la sera del 19, quando Lisbona è stata raggiunta anche dai plenipotenziari inviati da Roosevelt, ovvero il capo di Stato maggiore delle forze alleate del Mediterraneo, Walter Bedell-Smith, l’incaricato d’Affari degli Stati Uniti, George Kennan, e il capo dell’Intelligence Service delle forze alleate, il generale britannico Kenneth Strong. Si comincia a fare sul serio, in quel rapporto del tutto squilibrato: Castellano non ha nulla su cui contrattare, gli Alleati non flettono dall’accettazione della resa incondizionata.

Così come stanno le cose, il generale deve fare del suo meglio per non essere subito messo alla porta perché non ha alcuna delega di rappresentanza, e formalmente parla per sé.

Per accattivarsi la controparte lancia sul tavolo alcune confidenze e indiscrezioni di carattere politico-militare, pur di mantenere vivo quell’esile filo che deve portare l’Italia all’uscita dalla guerra. A Roma riusciranno però a complicargli la vita inviando persino altre due missioni segrete paradiplomatiche, ovviamente l’una all’insaputa dell’altra, come avremo modo di vedere in seguito

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Cultura

E’ il giorno dell’ultimo saluto a Michela Murgia

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AGI – E’ il giorno dell’ultimo saluto a Michela Murgia, scrittrice e attivista morta giovedì sera a 51 anni per un carcinoma al rene. Il funerale si terrà a Roma, alla Chiesa degli Artisti di piazza del Popolo, alle 15.30. A maggio l’autrice di Accabadora aveva annunciato di essere malata e di avere avanti a sé pochi mesi. E così è stato.

Murgia ha trascorso l’ultimo periodo lottando per i diritti che le stavano più a cuore: la difesa di una famiglia non tradizionale, parlando della sua “famiglia queer”. A luglio ha sposato il compagno Lorenzo in articulo mortis. Un’unione che lei stessa ha definito necessaria per vedere riconosciuti dei diritti al suo compagno. “Con Michela abbiamo lavorato mesi per una battaglia che è quanto mai urgente: tutelare ogni tipo di famiglia o relazione non tradizionale. Quella che noi chiamiamo ‘famiglia queer’ e che lo Stato non riconosce in alcun modo”, ha spiegato all’AGI, l’avvocata bolognese Cathy La Torre, amica intima di Murgia.

La Torre era stata scelta da Michela Murgia per far parte di quella che l’intellettuale aveva definito la sua “famiglia queer”. “La sua volontà – prosegue La Torre – era politica perché su questo tema si scuotessero le coscienze della politica. Quello che posso affermare con certezza e’ che si sono scosse milioni di coscienze e che noi continueremo a portare avanti, ognuno con le proprie capacità, il suo lascito”.

“La mia capacità – conclude – è e sarà il diritto, il diritto a scegliere con chi passare gli ultimi giorni della propria vita e come tutelare i legami non strettamente tradizionali. Questo abbiamo provato a fare, vivere la nostra queerness e renderla una realtà anche innanzi allo Stato e alle leggi”.

Roberto Saviano, Nicola Lagioia, la casa editrice: il mondo della cultura piange la scomparsa prematura della scrittrice, ma anche dalla politica è arrivato un cordoglio bipartisan. 

“Voglio esprimere sincere condoglianze alla famiglia e agli amici della scrittrice Michela Murgia. Era una donna che combatteva per difendere le sue idee, seppur notoriamente diverse dalle mie, e di questo ho grande rispetto”, ha scritto su Twitter la premier Giorgia Meloni.

Su Instagram Elly Schlein ha ricordato così la scrittrice: “L’amore dentro l’amicizia. L’intreccio delle lotte contro i sistemi oppressivi. I legami che hai intessuto vivono, anche per capire insieme come essere, dopo di te. Ma comunque, sempre, con te. Continueranno le tue parole a cambiare vite. La tua voce a essere cura. Avere cura. E graffio irriverente, contro ogni ipocrisia e discriminazione. #Murgia”.

Matteo Salvini ha pubblicato una foto con su scritto: “Una preghiera”. Mentre Giuseppe Conte l’ha definita “una voce libera”

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Cultura

Murgia: Barbara Alberti, morta l’unica possibile leader della sinistra

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AGI – “E’ morta l’unica vera possibile leader della sinistra”. E’ lapidario il giudizio di Barbara Alberti, scrittrice, giornalista e sceneggiatrice, ricordando Michela Murgia, scomparsa ieri a 51 anni.

“E aggiungo – spiega all’AGI – Michela è morta ‘vivissima’ e lo sarà sempre. Ha dato battaglia su tutto, ha pensato al dopo di lei senza egoismo, come ha fatto con il suo matrimonio. La sinistra, per me, ha perso l’unico vero leader possibile. Aveva un magnetismo unico con il pubblico, formidabile. Ed è per questo che è stata perseguitata da leader politici in modo orrendo”. Michela Murgia, sottolinea Barbara Alberti, “ha fatto capire che la politica la fanno anche gli intellettuali. A suo modo, ha avuto una funzione politica”.

L’ha definita una combattente: “E lo ripeto – spiega ancora Barbara Alberti – Alcune sue posizioni non le condividevo ma questo non significa non avere apprezzamento. Anzi! E’ stato l’esempio di quello che dovrebbe essere un intellettuale. Qualche volta avrà anche sbagliato ma i grandi, sbagliano. Gli eccessi fanno parte della grandezza, anche le cantonate ma lei, è stata Michela Murgia fino in fondo”.

Era una donna profondamente legata alla sua terra, la Sardegna: “Vedremo emergere tutta la sua originalità espressione dell’unico luogo d’Italia – a mio parere – dove c’è ancora il senso di giustizia sociale: penso allo sciopero dei pastori, dei minatori del Sulcis. Ora – conclude Barbara Alberti – è il momento di celebrarla anche con il sorriso, visto che aveva un umorismo strepitoso”. 

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