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La morte di Prigozhin e il copione dell’incidente che si ripete

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AGI – Di sicuro c’è solo che è morto. Le parole con cui Tommaso Besozzi raccontava sull’Europeo la morte del bandito Salvatore Giuliano a Castelvetrano il 5 luglio 1950 si sposano perfettamente alla vicenda del capo della milizia personale Wagner, Evgenij Prigožin, precipitato il 23 agosto 2023 col suo jet privato Embraer Legacy 600 dai cieli di Trer’. Dalla Sicilia alla Russia, dal sistema mafioso a quello sovietico e post-sovietico, dai colpi di mitra e di Beretta a quelli della contraerea: problemi di banditismo e di eversione nati dalla violenza e risolti nella violenza.

All’incidente occasionale non crede nessuno, neppure chi non crede al complottiamo. Mentre l’aereo con l‘ex cuoco autoproclamatosi generale e superpatriota di tutte le Russie si schiantava al suolo, in Italia su La7 per ironia o cinismo della sorte andava in onda un documentario russo su Ivan il terribile, manifesto sulla presa e sull’imposizione del potere senza scrupoli e a tutti i costi.

Cambiano i tempi e le forme, ma non i sistemi. La morte del capo dell’esercito mercenario risolve un grosso problema a Vladimir Putin, che appena due mesi fa si trovò spiazzato dalla marcia poi abortita verso Mosca delle milizie dell’ex amico che sferrò un duro colpo alla sua credibilità interna ed esterna e incrinò il sistema di potere del Cremlino.

Gli osservatori azzardarono che la neutralizzazione apparentemente consensuale di quell’inclassificabile tentativo di golpe sarebbe stato il preludio a una resa dei conti non altrettanto pacifica o senza conseguenze. L’epilogo non ha stupito gli esperti di politica internazionale e neppure chi ha dimestichezza con la storia di quelle latitudini.

A Putin, impegnato nella riscrittura dei libri di storia e nella rivalutazione della grandezza di un criminale come Stalin creatore dell’impero rosso, per il colore della bandiera e del sangue che fece scorrere a fiumi, non difetta la spregiudicatezza nel profilarsi in ombra alle spalle di sparatorie che provvidenzialmente gli eliminano oppositori e giornalisti scomodi, e persino di apparentemente innocui the corretti al polonio senza che lui tocchi neppure il samovar.

D’altronde viene dalla scuola del KGB. Stalin nel 1944 commissionò al regista Sergej Ejzenštein un film su Ivan il Terribile che doveva esser apologetico di lui stesso e della sua visione politica e del potere. Quello stesso anno, ad agosto, mentre Varsavia insorgeva contro i nazisti, dava ordine alla contraerea sovietica di aprire il fuoco contro i quadrimotori alleati che partivano dagli aeroporti pugliesi per paracadutare armi, munizioni e medicinali ai combattenti dell’Armia Krajowa, dopo aver prima negato che a Varsavia ci fosse una rivolta e poi il permesso di sorvolo dei territori controllati dall’Armata Rossa e di atterraggio negli aeroporti sovietici per fare rifornimento.

Le analogie con la morte nel 1943 di Władysław Sikorski

La contraerea russa, si tratti di B-24 del 1944 o di Embraer del 2023, non fa complimenti. E neppure i servizi segreti quando si tratta di eliminare personaggi scomodi. Se ci sono gli aerei di mezzo, è persino più semplice. Il 4 luglio 12943 moriva in un incidente aereo a Gibilterra il capo del governo polacco in esilio e comandante in capo dell’esercito polacco, generale Władysław Sikorski. Aveva preteso un’indagine internazionale indipendente da affidare alla Croce rossa internazionale dopo la scoperta in primavera dell’eccidio di Katyn, con migliaia di ufficiali polacchi giustiziati con un colpo alla nuca e sepolti nella foresta bielorussa.

Le fosse comuni erano state scoperte dai tedeschi dopo le rivelazioni di alcuni contadini bielorussi e una commissione internazionale formata da esperti di riconosciuta fama ai quali venne garantita la massima libertà su prelievi ed esami necroscopici e scientifici, concluse all’unanimità che il massacro era avvenuto nel 1940, quando la zona era sotto controllo dell’Armata Rossa. Tra i membri c’era l’anatomopatologo Vincenzo Palmieri. Sikorski pretendeva la verità e il Cremlino per tutta risposta il 25 aprile ruppe le relazioni diplomatiche col governo polacco di Londra.

Intervenne allora Winston Churchill che costrinse Sikorski a rinunciare, poiché temeva una frattura nella coalizione antihitleriana. Ma nulla garantiva che il generale non potesse rivolgersi al presidente americano Franklin Delano Roosevelt. Di ritorno da un’ispezione alle truppe polacche in Medio Oriente, per un incontro con il generale Władysław Anders, il quadrimotore B-24 Liberator pilotato dal fedele ed esperto tenente cecoslovacco Eduard Prchal aveva fatto uno scalo tecnico a Gibilterra. Il 4 luglio 1943, 16 secondi dopo il decollo, l’aereo si era schiantato al suolo.

Solo Prchal si era miracolosamente salvato, dichiarando che i timoni del B-24 non rispondevano ai comandi. Il sospetto del sabotaggio divenne palese. L’indagine venne condotta dai servizi segreti inglesi che conclusero invece per la tesi dell’incidente fortuito. Al vertice, a Gibilterra, c’era Kim Philby, che nel 1964 si scoprirà essere stato sempre un agente doppio al servizio di Stalin, e nel 1965 riparerà in Unione Sovietica celebrato come un eroe.

La morte di Sikorski eliminò comunque dall’orizzonte geo-politico di Stalin un temibile antagonista: a Jalta riuscirà a imporre la sua prospettiva sulla Polonia, inglobandosene nel 1945 un pezzo e facendone un Paese satellite. E tale rimarrà fino al 1989. Mentre sui documenti su Katyn proprio Putin ha riapposto il segreto di stato impedendone la consultazione, sull’incidente di Gibilterra nel 2014 l’Istituto nazionale per la memoria di Varsavia ha chiuso una propria inchiesta documentale (non tutte le carte sono disponibili: per quelle del Cremlino c’è poco da fare) non trovando riscontri all’ipotesi di complotto, lasciando però aperta una porta nel caso emergessero nuove prove. Che potrebbero arrivare solo da Mosca, dove i segreti, è notorio, sono difficilmente penetrabili, da Ivan il Terribile a Putin senza soluzione di continuità.

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Cultura

La biblioteca di Barcellona è stata nominata la migliore del mondo

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AGI – Le biblioteche tirano e attirano come mai prima d’ora. Ogni giorno ne nasce una nuova d lunedì 21 agosto, in occasione dell’88° Congresso mondiale sulla biblioteca e l’informazione, che si svolge fino a venerdì a Rotterdam, è stata scelta “la migliore biblioteca del mondo”, che si trova a Barcellona ed è intitolata alla memoria dello scrittore Gabriel García Márquez, come riferiscono diversi media spagnoli, tra cui il Paìs, La Nation, El Diario.

“Uno spazio di incontro intergenerazionale”

Quattromila metri quadrati di ampiezza, cinque piani suddivisi per tipo di utenza (adulti, ragazzi, bambini), un auditorium, aperta tutti i giorni, tutto il giorno (metà giornata il sabato), specializzata in letteratura latinoamericana, con più di 40 mila volumi, riviste, fumetti, libri fotografici e altro genere di documentazione, e con la possibilità di accoglierne altri diecimila, la nuova biblioteca di Barcellona, inaugurata a maggio del 2022 dalla sindaca di Barcellona Ada Colao nel popolare quartiere di Sant Martí de Provençals, la biblioteca di Barcellona dispone inoltre di uno studio radiofonico che dipende dalle Biblioteche e dalla Rete Radio Comunitaria (dove si producono podcast), un laboratorio di cucina e uno “spazio sensoriale” per i bambini.

Molta luce, molte piante, lo spazio della García Márquez offre 140 punti di lettura e si prefigge di diventare “uno spazio di incontro intergenerazionale e interculturale”.

Le altre biblioteche sul podio

Nell’ambito del concorso di Rotterdam, la biblioteca di Barcellona aveva, di contro, una concorrenza agguerrita e ha dovuto battersi con candidati fortissimi, spuntandola sulla Biblioteca pubblica Janez Vajkard Valvasor d Krskov (Slovenia), la Biblioteca Parramatta (Australia) e sulla colossale Biblioteca Est di Shanghai in Cina.

“Le quattro biblioteche sorteggiate si distinguono l’una dall’altra ma ciascuna rappresenta un vero dono per la propria comunità”, ha affermato il presidente della giuria Jakob Guillois Lærkes, che ha anche definito la vincitrice del concorso “un ottimo esempio di come una biblioteca possa fungere da collegamento fondamentale tra le persone e la comunità locale” rappresentando “un vero modello per i futuri edifici delle biblioteche negli anni a venire”.

Dalla sua inaugurazione, la Márquez è frequentata da una media di 1.100 utenti al giorno, è definita “la migliore biblioteca del mondo” al giorno ed è anche stata ribattezzata come “il Guggenheim de La Verneda”, con riferimento al quartiere adiacente.

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Cultura

Pippo Baudo: “Cotugno a Sanremo era successo matematico”

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AGI – “Il mio ricordo di Toto Cutugno? È molto malinconico ma nello stesso tempo bello. Perché era una bella persona, un personaggio eccezionale. Un grande compositore e soprattutto un uomo molto gentile“. Lo dice all’AGI Pippo Baudo sottolineando quanto Cutugno fosse “una persona perbene, e come tale – spiega – è stata riconosciuta dagli italiani che lo hanno sempre premiato cantando ancora le sue canzoni. Anche all’estero”.

Ricordando la collaborazione con un altro grande della musica italiana, il ‘molleggiato’ Adriano Celentano, Baudo ha detto che i due “quasi si imitavano con quel timbro di voce. Ma era un fatto involuto”. Qualcuno magari, li confondeva: “ma no, cioè, forse si. Ma poi non si poteva. È che hanno lavorato tanto insieme”, ha aggiunto il conduttore.

Perché Cutugno andava sempre al Festival di Sanremo? “Perché funzionava benissimo – dice Baudo – io lo volevo sempre Toto Cutugno, era una garanzia, era successo matematico”. E di lui, il presentatore ricorda anche “l’amore per il figlio. Mi ricordo quando me lo ha presentato – conclude – tanti anni fa. Orgoglioso, paterno, legatissimo a lui. Felice”.

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Cultura

Aldilapp, il ‘Facebook dei cimiteri’ che sta diventando un caso

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AGI – Qualcuno l’ha già soprannominata il “Facebook dei cimiteri”, e tutto sommato la definizione non dispiace a chi ha inventato “Aldilapp”. Una sfida intrapresa da un giovane imprenditore abruzzese e il suo staff, che si sono messi in testa di dare una spallata, attraverso la tecnologia e il metodo social, al tabù più ancestrale, alla superstizione più persistente nella nostra cultura: quella del rapporto coi defunti.

Quando Enrico Massi, Ceo di Aldilapp, illustra la propria creatura a potenziali clienti o semplici conoscenti, spesso la prima reazione è quella di chi storce la bocca o, peggio ancora, di chi fa ironie. Poi, in genere, emerge l‘utilità di questa app che comincia ad avere un numero di utenti importante. Ma che cos’è Aldilapp?

Già il nome rivela l’intenzione di alleggerire e sdrammatizzare il tema della morte e del rapporto col caro estinto, anche in virtù di ciò che ha insegnato la storia dell’agenzia di onoranze funebri Taffo, le cui campagne pubblicitarie improntate all’ironia e alla dissacrazione del tema morte sono entrate nei manuali di marketing.

Aldilapp offre servizi per recuperare o mantenere la memoria dei defunti: si può geolocalizzare una persona che non c’è più e scoprire in quale cimitero è sepolta, per poter andarla a trovare. Ma Aldilapp, attraverso accordi con piccole aziende del territorio, consente anche a chi non può recarsi personalmente sulla tomba della persona cara di inviare dei fiori o altri oggetti, di ordinare la pulizia della tomba stessa.

E poi, nella comunità virtuale creata dalla app per ogni cimitero, si possono scrivere dei ricordi o la biografia della persona cara di cui si vuole perpetuare la memoria, o ancora accendere un cero virtuale e aggiungere foto significative dell’esistenza della persona in questione.

Per consentire tutto questo, gli addetti di Aldilapp hanno iniziato un imponente lavoro di mappatura dei cimiteri, con particolare attenzione per quelli più piccoli, in alcuni casi stringendo accordi con imprese e amministrazioni locali, per un’idea che si è fatta strada durante la pandemia e ora sta prendendo quota a dispetto dei pregiudizi. 

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Cultura

Al via nel Veneziano il Festival Internazionale del teatro di strada 

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AGI – Saranno oltre venticinque gli artisti e le compagnie, provenienti da tutto il mondo, che in occasione della XXVIII Edizione si sono dati appuntamento a Caorle, suggestivo borgo sul mare, dal 29 agosto al 3 settembre, per dar vita alla magia de “La Luna nel Pozzo”, festival internazionale di Teatro di Strada.

Ed è proprio alla strada, come luogo di scoperta e crocevia tra mondi differenti, che guarda questa XXVIII Edizione, che fa proprio il monito di Jack Kerouac:  «Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo. Non può finire in nessun altro posto, no?». E da tutto il mondo arrivano gli spettacoli che in questo 2023 animeranno le piazze e delle calli della “Piccola Venezia” in un continuo mescolarsi tra i generi e una contaminazione tra artisti e pubblico: Kenia, USA, Argentina, Repubblica Ceca, Germania, Francia e naturalmente l’Italia, dove “La Luna nel Pozzo”, per la sua alta qualità artistica,  è tra i festival di teatro di strada riconosciuti dal Ministero della Cultura per il triennio 2022-2024. 

«Camminare, mettersi in movimento è insito nella natura dell’uomo, abbiamo l’urgenza di esplorare, scoprire, confrontarci – racconta Marco Caldiron direttore artistico de “La luna nel Pozzo” – Agli albori dell’umanità, dal centro dell’Africa, l’uomo si è incamminato per il mondo e da allora la nostra vita è un continuo spostarsi, seguire percorsi, raggiungere nuovi luoghi, siano questi fisici o dell’anima. La strada ci appartiene, nella strada troviamo nuovi mondi e nuove umanità con cui confrontarci e nella strada possiamo anche imbatterci nell’arte, nel teatro, nella musica, nella poesia. Camminiamo dal nostro primo giorno fino all’ultimo, sempre circondati da poesia».

Dall’Africa arriveranno gli Afro Jungle Jeegs, gruppo nomade e collettivo di performer keniota che proporrà un originale percorso artistico mettendo in scena in danza, acrobatica e musica. Il Festival porterà inoltre in prima nazionale lo spettacolo di circo contemporaneo Toca Toc della compagnia spagnola Cia Pakipaia, i cui protagonisti evocheranno grandi momenti del cinema e famosi successi musicali, in un viaggio esilarante, assurdo e divertente. Sempre per la prima volta il pubblico potrà assistere a Collection di Filip Zahradnický, artista della Repubblica Ceca che utilizza la giocoleria, la manipolazione degli oggetti e il movimento come principali mezzi espressivi per generare situazioni surreali che mettono in competizione il circo contemporaneo e le mostre d’arte. Direttamente dagli Stati Uniti partirà il viaggio sulle montagne russe dell’acrobata Noah Chorny, mentre l’argentino manoAmano Circus Company nel nuovo show NOSO3 con il palo cinese porterà il pubblico in un mondo onirico in cui gli oggetti sfuggono alla gravità. Complicità e sincerità sono gli ingredienti di Fin demain del duo franco-tedesco Zirkus Morsa, naufraghi persi sulla riva della loro immaginazione, in un mondo che rischia di capovolgersi. Acrobatica e clownerie sono gli ingredienti di Oveja Negra degli spagnoli Duo Laos, omaggio a tutte quelle persone che hanno dovuto nascondere la propria identità per svilupparsi e sopravvivere.

Il Festival verrà inaugurato martedì 29 agosto dalla performance itinerante Hopper in a box firmata da Carichi Sospesi e Farmacia Zooè, che tra le vie, le piazze e i negozi di Caorle daranno vita a tableaux vivants dedicati al pittore americano Edward Hopper, attraverso i corpi e le voci di sei fra attori e attrici. 

A partire dal 30 agosto fino al 3 settembre, non ci sarà disciplina di teatro di strada che non avrà il suo momento: l’acrobatica di A Dúo Andaban, della Compagnia Rasoterra, del DuoFlosh e del Duo Un Pie; l’equilibrismo e le evoluzioni dell’argentino Duo Patagonia; le marionette a filo di Alex Piras; gli spettacoli di giocoleria dello svizzero Collectif Acrocinus e degli italiani Nicolò Nardelli e Simone Romanò; il teatro manuale di Jacopo Tealdi #quellodellemani, spettacolo innovativo, originale e creativo in cui le due mani dell’artista raccontano storie, danzano e dialogano con il pubblico;  la magia di Mago Mpare e Max Maccarinelli. Non mancherà la musica, con le esibizioni di Filippo Brunetti, di Henri Buking e della Rusty Brass Band, che attraverserà il centro storico di Caorle al ritmo di funk, rock e sonorità balcaniche. Non potrà infine mancare il fuoco con gli Al-Kimiya in uno spettacolo di manipolazione di oggetti infuocati che unisce tecnica, azione e magia. Un’alternanza di quadri scenici in cui le fiamme danzano con i corpi in movimento e dove la manipolazione tecnica si armonizza con leggi gravitazionali  dell’universo. 

Al teatro più tradizionale sarà dedicato Achab di Ullallà Teatro e Compagnia DinDonDown, laboratorio teatrale formata da persone con disabilità. Partendo dal Moby Dick di Melville trasposto in chiave contemporanea, la pièce vuole cercare di andare in profondità per guardare non solo alla disabilità, per osservare tutte le cose che ci circondano in un modo diverso. 

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Cultura

Ricostruita la vita degli schiavi a Pompei [VIDEO]

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AGI – Una nuova stanza, con i suoi arredi, destinata agli schiavi. È l’ultima ‘sorpresa’ degli scavi in corso nella villa romana di Civita Giuliana, a circa 600 metri dalle mura dell’antica Pompei. Una situazione di precarietà e subalternità documentata da reperti unici perché posizionati lì dove erano in quella giornata i fine ottobre del 79 d.C., quando il Vesuvio seppellì le città ai suoi piedi.

Un’immagine di quasi 2000 anni fa, realizzata con la tecnica dei calchi, esistente solo a Pompei e dintorni. Materiali quali mobili e tessuti, nonché corpi di vittime dell’eruzione del 79 d.C., sono stati coperti dalla nube piroclastica, divenuta poi terreno solido mentre la materia organica decomposta ha lasciato un vuoto nel terreno: un’impronta che, riempita di gesso, ha rivelato la sua forma originaria.

La nuova stanza, denominata ‘ambiente A’, si presenta diversa da quella già nota come ‘ambiente C’, ricostruita a novembre 2021 in cui erano posizionate tre brande e che fungeva al tempo stesso da ripostiglio. Quello che è emerso adesso fa pensare a una precisa gerarchia all’interno della servitù. Mentre uno dei due letti trovati in queste settimane è della stessa fattura di quelli nell’ambiente C, estremamente semplice e senza materasso, l’altro è di un tipo più confortevole e costoso, noto in bibliografia come letto a spalliera. Nella cinerite sono ancora visibili le tracce di decorazioni color rosso su due delle spalliere.

Oltre ai due letti, nell’ambiente recentemente scavato ci sono due piccoli armadi, anch’essi conservati parzialmente come calchi, una serie di anfore e vasi di ceramica e diversi attrezzi, tra cui una zappa di ferro. Il microscavo di vasi e anfore provenienti dall’ambiente C ha nel frattempo restituito tre roditori, due topolini in un’anfora e un ratto in una brocca, posizionata sotto uno dei letti e dalla quale sembra che l’animale cercasse di scappare quando morì nel flusso piroclastico dell’eruzione.

Dettagli che sottolineano ancora una volta le condizioni di disagio igienico in cui vivevano gli ultimi della società dell’epoca. L’esplorazione archeologica della villa di Civita Giuliana, già oggetto di scavi nel 1907-08, è cominciata nel 2017 con una collaborazione tra il Parco Archeologico di Pompei, quale ente competente per la tutela dell’area circostante la città antica, e la procura di Torre Annunziata, che insieme ai Carabinieri aveva scoperto scavi clandestini nell’area della Villa che andavano avanti da anni, arrivando a misure cautelari e processi penali e civili.

“Sappiamo che i proprietari usavano diversi privilegi, tra cui anche la possibilità di formare una famiglia, seppure senza alcuna tutela legale, per legare alcuni schiavi più strettamente alla villa, anche con la finalità di averli come alleati nel sorvegliare gli altri. Quello che emerge qui è la struttura sociale della servitù che doveva impedire fughe e forme di resistenza, anche perché mancano tracce di grate, lucchetti e ceppi. Il controllo avveniva principalmente tramite l’organizzazione interna della servitù, e non tramite barriere e vincoli fisici – spiega il direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel – siamo impegnati a continuare le ricerche e progettare la fruizione di un luogo che, come nessun altro del mondo antico racconta la quotidianità degli ultimi. In occasione della riapertura dell’Antiquarium di Boscoreale il prossimo autunno, prevediamo una sala per informare il pubblico sugli scavi in corso, gli stessi che, sotto la direzione del mio predecessore, Massimo Osanna, hanno portato alla scoperta del carro cerimoniale recentemente in mostra a Roma, alle Terme di Diocleziano. Vorrei ringraziare, oltre alla squadra impegnata nello scavo archeologico, la procura guidata da Nunzio Fragliasso per l’eccellente lavoro svolto”.

Sangiuliano: “Conferma delle necessità di proseguire la ricerca”

“Quanto ricostruito conferma la necessità di proseguire la ricerca scientifica in un luogo che, grazie all’opera della magistratura e dei Carabinieri, è stato strappato al saccheggio e al traffico illecito di beni archeologici per raccontare momenti notevoli della vita quotidiana dell’antichità. Quel che si sta apprendendo sulle condizioni materiali e sull’organizzazione sociale dell’epoca apre nuovi orizzonti agli studi storici e archeologici. Pompei rappresenta un unicum che tutto il mondo ci invidia. Conclusa l’operazione Grande Pompei, progettiamo nuove iniziative e nuovi finanziamenti per proseguire nella ricerca e nella tutela”. Lo scrive in una nota il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, dopo l’annuncio del ritrovamento di un nuovo ambiente destinato agli scavi nella villa romana di Civita Giuliana, di cui attraverso calchi si sono recuperate anche gli arredamenti.

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Cultura

Nanni Moretti, uno “splendido 70enne”

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AGI – Nanni Moretti, splendido 70enne. Oggi l’attore e regista romano, nato per caso a Brunico il 19 agosto 1953, taglia oggi il traguardo dei 70 anni. Ed è inevitabile ricordare la sua battuta di ‘Caro diario’ quando urlava che lui era, nel 1993, “uno splendido quarantenne”.

Oggi festeggia 70 anni e lo fa dopo aver regalato al suo pubblico il suo film testamento (o, meglio dire, ‘summa morettina’), ‘Il sol dell’avvenirè dove parla molto di se stesso, fra autocitazioni, versioni aggiornate di celebri scene (vedi il monologo sulle scarpe di ‘Bianca’ diventato il monologo sulle ciabatte) e un po’ di nostalgia. Un regista che ha segnato un’epoca, che ha avuto il merito di avere una voce critica all’interno della sinistra di cui si è sentito rappresentante, al punto di aver inventato una sorta di movimento chiamato ‘i girotondi’ spazzato via dall’onda d’urto berlusconiana.

In quella sinistra che ha cercato di bacchettare e di spingere verso la sua naturale posizione (chi non ricorda il suo appello nel film ‘Aprilè del 1998 all’allora leader del Pd impegnato in un confronto tv con Berlusconi: “D’Alema, dì qualcosa di sinistra! Dì una cosa anche non di sinistra, di civiltà. D’Alema dì una cosa, dì qualcosa! Reagisci!”).

Un regista, Nanni Moretti, che ha dimostrato di essere un grande autore, un ottimo artista in grado di vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes con lo struggente ‘La stanza del figlio’. Come ha spiegato lo stesso Moretti qualche anno fa ospite alla Festa del cinema di Roma, la sua avventura nel mondo del cinema è iniziata da adolescente, anche se ha confessato di aver cominciato tardi ad essere uno “spettatore forte”, dopo i 15 anni, quando alla fine della scuola e degli allenamenti di pallanuoto si recava nei cinema a vedere i film degli anni ’60. Non solo quelli italiani, ha raccontato. Registi che “rifiutavano il cinema e la società avuti in eredità e cercavano di prefigurare un nuovo cinema. E una nuova società”. 

Nel 1972, dopo la maturità, Nanni Moretti ha fatto la sua scelta. “Il mio ex compagno Pietro Veronese, oggi giornalista – ha raccontato – mi chiese cosa volevo fare e io, vergognandomi, risposi che non avrei fatto l’università e che avrei fatto il cinema. Mi chiese se volevo fare l’attore o il regista – ha detto – e io gli ho risposto che volevo fare sia l’uno che l’altro”. E cosi’, ricorda Moretti, iniziai a propormi e frequentare i set dei Taviani, Peter Del Monte e Bellocchio come assistente volontario.

“La stessa confusione che avevo io – ha aggiunto – la portavo sui set: chiedevo ai registi di assisterli ma poi aggiungevo: ‘se c’è un ruolo da attore io sono pronto…'”. Nel 1974 il suo primo mediometraggio, ‘Come parli fratè, con Beniamino Placido (“A cui ho fatto togliere gli occhiali perché si vedesse la sua miopia”, ha spiegato), una rilettura alla Moretti de ‘I promessi sposi’ con lo stesso regista nei panni di un cupo don Rodrigo. Un primo tentativo di cinema che risentiva dell’influenza dei fratelli Taviani (“la telecamera fissa su di me”) e di Carmelo Bene (“La morte di fra Cristoforo” con acqua, sangue e un liquido nero che scorre sulla faccia). Dopo aver recitato nei suoi film e aver fatto un paio di ruoli minori in ‘Padre padrone’ dei Taviani e ‘Domani accadrà’ del suo ex assistente Daniele Luchetti, nel 1991 il primo ruolo da protagonista in ‘Il portaborse’ sempre di Luchetti. Un ruolo in cui tira fuori tutta la sua istintiva e naturale antipatia che dà un valore aggiunto a un personaggio spregevole e arrogante.

“È stato lo stesso Luchetti a volermi nel suo film – ha raccontato Moretti – per spiazzare il pubblico”. Un ruolo importante a cui ne faranno seguito altri, per altri registi, dove ha recitato sempre convinto che l’attore debba capire “cosa il regista vuole raccontare attraverso il personaggio”. “Non mi piacciono gli attori che si identificano in un personaggio al punto di scomparire”, ha detto. Per Moretti solo tre film come attore dopo quello di Luchetti – ‘La seconda volta’ di Mimmo Calopresti nel 1995, ‘Caos calmo’ di Antonello Grimaldi nel 2008 e ‘Il colibrì’ di Francesca Archibugi nel 2022 – oltre a un ‘gran rifiuto’: “Kieslovsky mi voleva come attore in ‘La doppia vita di Veronica’ e io accettai – ha raccontato – poi mi sono ammalato di tumore e non se n’è fatto piu’ niente”. Gia’, il tumore. Colpito da linfoma di Hodgkin, ha raccontato la sua malattia nell’ultimo grande film personale, ‘Caro diario’ del 1994. Col tumore Moretti ha dovuto poi tornare a combattere vent’anni dopo. Anche stavolta ha vinto lui.

E anche stavolta lo ha raccontato, ma lo ha fatto con un cortometraggio che ha presentato alla stampa nel 2017 alla Festa del cinema, un film di 8 minuti da titolo ‘Autobiografia dell’uomo mascherato’. Un video in cui gira per Roma (lungotevere, Auditorium parco della musica, Nuovo Sacher) indossando una rete che lo fascia fino a mezzo busto. Le immagini scorrono e Moretti commenta le varie scene. Nell’ultima si vede l’attore sdraiato a cui montano la struttura. La scena clou è quella successiva: sdraiato su un letto mobile, con la rete-maschera, viene introdotto sotto un macchinario di radioterapia. “Dopo vent’anni, in un’altra parte, è tornato il tumore – ha detto Moretti – e questa è una delle tante sedute di radioterapia a cui mi sono sottoposto”.

Moretti è regista, attore, sceneggiatore. Ma anche produttore. E, come sempre, anche in questa veste è appassionato e ‘rigido’. Un’avventura parallela a quella di regista e attore iniziata oltre trent’anni fa con Angelo Barbagallo. “Producemmo i nostri primi due film di due esordienti – ha raccontato – ‘Notte italiana’ di Carlo Mazzacurati, che avevo conosciuto giocando a calcetto, e ‘Domani accadrà’ di Daniele Luchetti, che era stato mio assistente”.

A differenza dell’immagine che dà di sé nei suoi film, Moretti produttore è un uomo tranquillo. Almeno a suo dire. “Non sono come quei registi che diventano produttori per ‘sadizzare’ i registi meno noti. Niente sadismo – ha aggiunto – né la volontà, come spesso accade, di produrre un sottoprodotto della mia filmografia o di realizzare un film per poter dire: ‘vedete, io ci ho provato purtroppo non c’è ricambio'”. Moretti invece ha spiegato di aver fatto questa scelta per “lavorare con persone con cui sto bene e per restituire un po’ della fortuna che ho avuto io”. Nessun intervento sul set, poi, ma certamente una richiesta di partecipare in fase di scrittura, di casting e di montaggio e di farlo, comunque, “sempre con spirito da spettatore e non da regista”. Moretti vive il cinema a 360 gradi. Da regista ad attore, da produttore a esercente (è proprietario del cinema Nuovo Sacher di Roma), da critico a giurato.

Proprio in quest’ultimo ruolo si è ‘esibito’ in una performance eccezionale. A raccontarla è stato lo stesso Moretti. “A Cannes, nel 1997, sono riuscito a convincere i miei colleghi a premiare Kiarostami: all’inizio eravamo 9 contro uno. Alla fine siamo stati 5 a 5 con un ex aequo (‘Il sapore della ciliegia’ di Kiarostami e ‘L’anguilla’ di Imamura, ndr). Li ho costretti a discutere per due ore e alla fine erano stressatissimi”, ha detto. Ed è assai credibile. Oggi, a 70 anni, per un attimo lascia il cinema per dedicarsi al teatro: curera’ la regia di due atti unici di Natalia Ginzburg, ‘Dialogo’ e ‘Fragola e panna’ con Valerio Binasco, Daria Deflorian, Alessia Giuliani, Arianna Pozzoli, Giorgia Senesi. Prima nazionale al Teatro Carignano di Torino il 9 ottobre. Un nuovo inizio per Moretti? 

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Cultura

Il tristellato Uliassi mette in menù gli “speghetti” di Checco Zalone

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AGI – “Un giorno è venuto qui a mangiare Checco Zalone e mi ha invitato a una cena dove avrebbe cucinato gli spaghetti all’assassina. Piatto tipico di Bari che ultimamente nei social sta spopolando”, racconta al Gambero Rosso l’ottimo chef Mauro Uliassi, sempre in testa a tutte le classifiche gastronomiche, il cui ristorante a Senigallia “è valutato con 3 stelle Michelin, 5 cappelli Espresso, 3 forchette del Gambero Rosso”, come si evince dal suo sito ufficiale.

E a lui in testa si è accesa subito la lampadina della creatività e della replicabilità dell’idea. Gli spaghetti all’assassina non è tuttavia né una ricetta antica né un piatto di recupero, come in genere si ritiene, bensì “un piatto antico della tradizione barese”, la cui nascita, risale al 1967 quando Enzo Francavilla, foggiano, titolare del Sorso Preferito a Bari, li inventò di sana pianta per due clienti che si erano accomodati ai tavoli della sua trattoria. E da quel momento “gli spaghetti all’assassina entrarono a far parte del menu del Sorso Preferito a Bari”, per altro ancora in attività, conquistando altri clienti e viaggiando di ristorante in ristorante, fino a divenire uno dei piatti simbolo di Bari.

Una storia intrigante che ha conquistato anche Mauro Uliassi, che così racconta: il piatto: “Nasce da una chiacchierata con Luca Medici, in arte Checco Zalone, una persona straordinaria, così come tutta la compagnia con la quale è venuto qui a pranzo. A un certo punto mi ha invitato a una festicciola nel suo hotel la sera, dove avrebbe cucinato gli spaghetti all’assassina. Grande classico di Bari che, diciamolo, non è tecnicamente corretto: in pratica gli spaghetti vengono messi a crudo nel pomodoro e poi man mano si aggiunge il brodo fatto con la conserva, ma il vero segreto è di farli attaccare alla padella più e più volte. Eppure, con i miei ragazzi, ci allettava molto l’idea di inserire questo piatto nel Lab”. 

Il risultato è “aver estrapolato la caratteristica principale della pasta all’assassina, la sua piccantezza, creando una salsa all’arrabbiata dove al posto del pomodoro abbiamo utilizzato il peperone rosso lungo, che ha una piccantezza di livello medio e poco persistente. Dopodiché, con i gambi di prezzemolo, abbiamo fatto una specie di tabbouleh, l’aglio lo abbiamo messo in infusione nell’olio e a cristalli leggermente tostato, e ci abbiamo aggiunto la ‘nduja e un olio fatto con l’ajowan, che ha un marcato sentore cuminoso”. 

La pasta, poi, va resa croccante senza bruciarla mentre la cottura tradizionale non lo permette. Va invece azzeccato il punto di cottura dove la pasta cede ed è poi facile da arrostire. Formato ideale: il fusillone di Pietro Massi cucinato in acqua per 34 minuti a fronte dei 12 minuti normali. Una volta stracotto viene freddato e arrostito in padella e sotto la salamadra, ottenendo una tostatura che di fatto è due passi indientro rispetto alla bruciatura. Ecco servita la pasta all’assassina di Uliassi: fusillo in bianco arrostito (morbido al centro e croccante fuori) con sugo all’arrabbiata di peperone rosso, ‘nduja, cristalli di aglio tostato, olio di ajowan e tabbouleh di prezzemolo. Il tutto accende le papille.

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Cultura

Robert De Niro fa 80 anni 

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AGI – Robert de Niro, nato a New York il 17 agosto 1943, compie 80 anni. E a New York, precisamente a Greenwich Village, festeggerà il suo compleanno più importante senza dimenticare le sue origini, scegliendo un ristorante rigorosamente italiano.

Tutti infatti sanno che i nonni paterni, Giovanni Di Niro (un errore di pronuncia ha comportato la trascrizione De Niro) e Angelina Mercurio erano originari di Ferrazzano, in provincia di Campobasso. L’Italia è praticamente la sua seconda patria, ed ha anche la cittadinanza.

E’ cresciuto con la madre a Little Italy ed ama definirsi italo-americano. Recentemente lo abbiamo visto a Napoli con Paolo Sorrentino ma la sua vera casa resta New York. Nel corso della sua carriera è stato gangster e poliziotto, detective e criminale, anche comico.

Vanta due premi Oscar e ben sette figli, l’ultimo lo ha avuto a 79 anni. Ora à in lizza per un terzo Oscar, per The Monn Killers, con il suo amico di altrettante origini italiane, Martin Scorsese. 80 anni passando per “Toro Scatenato” (1980), “Taxi Driver” (1976), “Il Padrino Parte II” (1974), “New York, New York” (1977), “Il Cacciatore” (1978), “C’era una volta in America” (1984), “The Mission” (1986), “Angel’s Heart” (1987), “Uno di noi” (1990), “Cape Fear” (1991), “Una storia del Bronx” (1993), “Casino'” (1995), “Heat” (1995), “Sleepers” (1996), “La stanza di Marvin” (1996), “Jackie Brown” (1996) o “Ronin” (1998).

Tutti questi, sono solo “alcuni” dei titoli delle pellicole che ha interpretato. Con Scorsese che era del suo stesso quartiere, ha realizzato una dozzina di film, tutti capolavori. Brian de Palma lo scopri’: porto’ sul grande schermo un bel ragazzo dagli occhi nerissimi con quell’inconfondibile neo sulla guancia.

Nell’immaginario comune, nonostante le tante pellicole, siamo abituati a ricordarlo prima di tutto per l’interpretazione di Vito Corleone nella seconda parte de “Il Padrino” e per il mitico “C’era una volta in America”. Si dice che De Niro abbia trascorso ben 4 mesi in Sicilia per imparare a recitare nel fatidico accento. Altre “metamorfosi” le fece per recitare in “Toro Scatenato”, prendendo ben 27 chili.

Sapeva trasformarsi sul set in uno psicopatico, in assassino, quasi sempre in un antieroe, persino nel diavolo. Tenero in “Manuale d’amore 3” in cui interpreta la parte di un prof universitario americano residente a Roma dalla morte della moglie, che vive un rapporto cui tenta di sottrarsi in tutti i modi, con la giovae ed esuberante figlia del portiere, interpretata da Monica Bellucci.

Per lei si esibirà in un celebre spogliarello. Lunga, lunghissima la carriera di Robert che ha interpretato anche ruoli comici come in “Mi presenti i tuoi?” e relativi sequel, con Ben Stiller. Si è anche cimentato nella regia con l’esordio nel 1993 autodirigendosi al fianco di Chazz Palminteri nel film “Bronx”, e poi mettendosi dietro la macchina da presa per altre pellicole. Decisamente movimentata la sua vita sentimentale.

L’italoamericano Robert De Niro ha sette figli nati da quattro donne diverse: con Diahnne Abbott – con cui è stato sposato dal 1976 al 1988 – ha adottato una figlia, Drena (1971), nata da una precedente relazione della moglie e ha avuto il figlio biologico Raphael (1976).

Nel 1995 da Toukie Smith sono arrivati i gemelli Julian Henry e Aaron Kendrik, tramite madre surrogata. Nel 1997 il matrimonio con Grace Hightower cui segue la nascita di Elliot (1998). Nel 2011 nasce, ancora da madre surrogata, Helen Grace sempre dalla Hightower. E nel maggio 2023 ecco l’ultimo figlio: a 79 anni, dalla storia con Tiffany Chen, nasce Gia Virginia.

E’ anche nonno di quattro nipoti. Il 18 ottobre 2006 Robert De Niro è stato naturalizzato italiano, pur conservando la cittadinanza statunitense. Per festeggiare il suo compleanno ha chiesto ai fan di votare il film preferito da lui interpretato. In Italia è stato notoriamente doppiato da Ferruccio Amendola che poi ha dovuto, per forza di cose, cedere il passo a Stefano De Sando.

E alla morte di Gianni Minà, qualcuno dagli archivi ha tirato fuori una celebre foto da “Checco er Carrettiere”, nota trattoria romana, che ritrae De Niro in compagnia del giornalista italiano, di Sergio Leone, Muhammad Ali e Garcia Marquez.

Si dice che la calamita per metterli tutti insieme in quell’invidiabile gruppo, fosse proprio il pugile. Intanto è stata storia. 

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Cultura

Robert De Niro fa 80 anni 

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AGI – Robert de Niro, nato a New York il 17 agosto 1943, compie 80 anni. E a New York, precisamente a Greenwich Village, festeggerà il suo compleanno più importante senza dimenticare le sue origini, scegliendo un ristorante rigorosamente italiano.

Tutti infatti sanno che i nonni paterni, Giovanni Di Niro (un errore di pronuncia ha comportato la trascrizione De Niro) e Angelina Mercurio erano originari di Ferrazzano, in provincia di Campobasso. L’Italia è praticamente la sua seconda patria, ed ha anche la cittadinanza.

E’ cresciuto con la madre a Little Italy ed ama definirsi italo-americano. Recentemente lo abbiamo visto a Napoli con Paolo Sorrentino ma la sua vera casa resta New York. Nel corso della sua carriera è stato gangster e poliziotto, detective e criminale, anche comico.

Vanta due premi Oscar e ben sette figli, l’ultimo lo ha avuto a 79 anni. Ora à in lizza per un terzo Oscar, per The Monn Killers, con il suo amico di altrettante origini italiane, Martin Scorsese. 80 anni passando per “Toro Scatenato” (1980), “Taxi Driver” (1976), “Il Padrino Parte II” (1974), “New York, New York” (1977), “Il Cacciatore” (1978), “C’era una volta in America” (1984), “The Mission” (1986), “Angel’s Heart” (1987), “Uno di noi” (1990), “Cape Fear” (1991), “Una storia del Bronx” (1993), “Casino'” (1995), “Heat” (1995), “Sleepers” (1996), “La stanza di Marvin” (1996), “Jackie Brown” (1996) o “Ronin” (1998).

Tutti questi, sono solo “alcuni” dei titoli delle pellicole che ha interpretato. Con Scorsese che era del suo stesso quartiere, ha realizzato una dozzina di film, tutti capolavori. Brian de Palma lo scopri’: porto’ sul grande schermo un bel ragazzo dagli occhi nerissimi con quell’inconfondibile neo sulla guancia.

Nell’immaginario comune, nonostante le tante pellicole, siamo abituati a ricordarlo prima di tutto per l’interpretazione di Vito Corleone nella seconda parte de “Il Padrino” e per il mitico “C’era una volta in America”. Si dice che De Niro abbia trascorso ben 4 mesi in Sicilia per imparare a recitare nel fatidico accento. Altre “metamorfosi” le fece per recitare in “Toro Scatenato”, prendendo ben 27 chili.

Sapeva trasformarsi sul set in uno psicopatico, in assassino, quasi sempre in un antieroe, persino nel diavolo. Tenero in “Manuale d’amore 3” in cui interpreta la parte di un prof universitario americano residente a Roma dalla morte della moglie, che vive un rapporto cui tenta di sottrarsi in tutti i modi, con la giovae ed esuberante figlia del portiere, interpretata da Monica Bellucci.

Per lei si esibirà in un celebre spogliarello. Lunga, lunghissima la carriera di Robert che ha interpretato anche ruoli comici come in “Mi presenti i tuoi?” e relativi sequel, con Ben Stiller. Si è anche cimentato nella regia con l’esordio nel 1993 autodirigendosi al fianco di Chazz Palminteri nel film “Bronx”, e poi mettendosi dietro la macchina da presa per altre pellicole. Decisamente movimentata la sua vita sentimentale.

L’italoamericano Robert De Niro ha sette figli nati da quattro donne diverse: con Diahnne Abbott – con cui e’ stato sposato dal 1976 al 1988 – ha adottato una figlia, Drena (1971), nata da una precedente relazione della moglie e ha avuto il figlio biologico Raphael (1976).

Nel 1995 da Toukie Smith sono arrivati i gemelli Julian Henry e Aaron Kendrik, tramite madre surrogata. Nel 1997 il matrimonio con Grace Hightower cui segue la nascita di Elliot (1998). Nel 2011 nasce, ancora da madre surrogata, Helen Grace sempre dalla Hightower. E nel maggio 2023 ecco l’ultimo figlio: a 79 anni, dalla storia con Tiffany Chen, nasce Gia Virginia.

E’ anche nonno di quattro nipoti. Il 18 ottobre 2006 Robert De Niro è stato naturalizzato italiano, pur conservando la cittadinanza statunitense. Per festeggiare il suo compleanno ha chiesto ai fan di votare il film preferito da lui interpretato. In Italia è stato notoriamente doppiato da Ferruccio Amendola che poi ha dovuto, per forza di cose, cedere il passo a Stefano De Sando.

E alla morte di Gianni Minà, qualcuno dagli archivi ha tirato fuori una celebre foto da “Checco er Carrettiere”,nota trattoria romana, che ritrae De Niro in compagnia del giornalista italiano, di Sergio Leone, Muhammad Ali e Garcia Marquez.

Si dice che la calamita per metterli tutti insieme in quell’invidiabile gruppo, fosse proprio il pugile. Intanto è stata storia. 

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