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Combattere senza paura e senza speranza

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AGI – “Combattere senza paura e senza speranza” è il titolo delle memorie del generale tedesco Frido von Senger und Etterlin, cattolico praticante, soldato dalla profonda etica cristiana, antinazista dalla prima ora.

Combattere senza speranza e senza paura è anche il manifesto degli insorti dell’eroica e disperata rivolta di Varsavia del I agosto1944. Non c’era infatti alcuna possibilità di sconfiggere le SS nello scenario della guerriglia urbana, ma c’era il coraggio di battersi per la dignità e per il proprio Paese oppresso dal 1939. È questa una delle pagine più controverse della seconda guerra mondiale. L’inopportunità di quella sollevazione venne soppesata anche dal Governo polacco in esilio a Londra, e il generale Władysław Anders era contrario perché intravedeva dal prevedibile fallimento lo smantellamento dell’esercito clandestino che avrebbe dovuto impedire la sovietizzazione della Polonia, con l’Armata Rossa di Stalin giunta davanti alla capitale.

Quel I agosto del 1944, alle ore 17, scattava l’Operazione Burza, ovvero “Tempesta”. Tutto spingeva ormai in quella direzione e il corso della storia non poteva più essere fermato. Il presidente del consiglio dei  ministri del governo polacco in esilio a Londra, Stanisław  Mikołajczyk, dal 30 luglio si trovava a Mosca per un colloquio con Stalin che il dittatore aveva spostato al 3 agosto, avendo già riconosciuto l’Unione dei patrioti polacchi (Zpp) di Bolesław Bierut (futuro presidente della Polonia socialista) e Wanda Wasilewska come rappresentante del popolo polacco.

Il futuro stesso della Polonia è in gioco, poiché Stalin intende appropriarsi di metà del Paese stabilendo la nuova frontiera secondo al Linea Curzon tracciata nel 1919 e superata con la vittoria militare dei polacchi sui bolscevichi nel 1920 come sancito poi dal Trattato di Riga. Quel I agosto il bollettino dell’agenzia di stampa tedesca Deutsche Nachrichten-Büro (Dnb) aveva diffuso la tranquillizzante nota «Varsavia è  calma». I tedeschi avevano mobilitato la popolazione per i lavori forzati a difesa della città ormai minacciata dall’Armata Rossa acquartierata sulla sponda orientale della Vistola. Per la resistenza sarebbe stato un colpo letale, perché i combattenti dell’Armia Krajowa non sarebbero più stati disponibili per quello che aspettavano da anni.

Alle 17 i reparti del colonnello Antoni Chrusćiel (‘Monter’) aprono il fuoco e danno inizio alla rivolta. I vertici dell’AK hanno deciso di tenere impegnati i tedeschi per tutto il tempo in cui Mikołajczyk deve condurre i negoziati, quindi per cinque, sette giorni al massimo: è quanto consentono le scorte di viveri e di munizioni. Oltre 45.000 insorti costituiti in circa 600 compagnie di cinquanta-cento combattenti, uomini e donne, spuntano come funghi  dal tessuto urbano di Varsavia. La Kotwica, l’àncora simbolo dell’AK con la lettera ‘P’ che sormonta la ‘W’, viene dipinta e disegnata dappertutto.

I polacchi portano bracciali biancorossi, sfoggiano stemmi e distintivi con l’aquila bianca sugli elmetti tedeschi, le bandiere polacche sostituiscono quelle del Terzo Reich. Il quartier generale guidato da Tadeusz Bór Komorowski , dalla fabbrica Kammler, il 2 agosto via radio informa gli Alleati che «la battaglia per Varsavia è cominciata». Stalin reagisce dando l’ordine all’Armata Rossa di fermarsi al Quartiere Praga e di non attraversare la Vistola: sarebbero stati i tedeschi a fare il lavoro sporco sul campo di battaglia e a “ripulirlo” dall’Armia Krajowa che i sovietici avevano smantellato ovunque fossero entrati nel territorio polacco con fucilazioni, imprigionamenti e deportazioni. Un copione ormai classico. A Mikołajczyk il dittatore non lascia alcun margine di trattativa, arrivando pure a negare l’insurrezione di Varsavia. Ai polacchi non resta allora che combattere senza speranza e senza paura.

Le SS del generale Erich von dem Bach-Zelewski mostrano il loro volto più feroce, con i ranghi irrobustiti da detenuti e criminali che si macchiano di indicibili stragi di civili, con decine di migliaia di morti. L’AK, stando al Diario della 9ª Armata tedesca, si batteva in modo fanatico e con molta decisione, ma dopo l’iniziale slancio non poteva che perdere continuamente e sanguinosamente terreno. I combattenti resistono a condizioni inenarrabili, senza acqua e cibo, senza medicine.

Stalin ha negato all’aeronautica alleata il permesso di sorvolo e di scalo sui territori presidiati dall’Armata Rossa, e tanto per far capire come la pensa li fa accogliere dal tiro della contraerea. Le missioni partite dagli aeroporti pugliesi hanno perdite altissime e risultati irrisori nel lancio di rifornimenti: un quadrimotore abbattuto per ogni tonnellata di materiale lanciato e il 16% della flotta. A un certo punto, per beffa, Stalin farà effettuare lanci dall’aeronautica sovietica, ma da altezze troppo basse in modo che il carico vada in frantumi, e casse con munizioni di calibro non compatibile con le armi di rivoltosi.

Dopo 63 giorni di lotta disperata, il 2 ottobre, il generale Bór Komorowski firma la resa, avendo ottenuto tutte le garanzie delle convenzioni internazionali. I reparti superstiti, 11.000 soldati (di cui 2.000 donne) sfilano cantando in ordine e armati davanti ai tedeschi, che li riconoscono legittimi combattenti, mentre loro gridano «Lunga vita alla Polonia! Viva la libertà». Il 3 ottobre da Londra il Comitato nazionale polacco diffonde un commovente bollettino: «Non abbiamo ricevuto alcun sostegno effettivo […]. Siamo stati trattati peggio degli alleati di Hitler in Romania, in Italia e in Finlandia». Hitler per vendetta farà evacuare tutta la popolazione da Varsavia e ordinerà di cancellare la città dalla faccia della terra. Quando finalmente arriverà dal Cremlino l’ordine di oltrepassare la Vistola, i soldati sovietici troveranno davanti a loro un mare di macerie al posto dell’elegante capitale d’anteguerra. Per quella rivolta erano morti oltre 200.000 soldati e civili. Finita l’occupazione nazista, per la Polonia iniziava l’era dell’occupazione sovietica    

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Una croce, una foto: l’omaggio di Agira ai canadesi morti nello Sbarco

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AGI – Qualcuno ha la moglie accanto, un altro un figlio in braccio, altri ancora semplicemente il viso senza una ruga: c’è una foto sbiadita e in bianco e nero per ciascuno dei 480 soldati canadesi che riposano nel cimitero militare di Agira, affacciato sullo specchio d’acqua Pozzillo che ricorda vagamente i laghi del Canada: sono giovani e giovanissimi, caduti tra Leonforte, Assoro e Agira, e sono la maggioranza dei 562 Loyal “Eddies” morti 80 anni fa nello sbarco alleato in Sicilia, quella Operazione Husky che nel 1943 diede il via alla sconfitta militare del nazismo.

Tjarco Schuurman, un uomo imponente di quasi due metri, presidente della D-Day Dodgers Foundation, da tre anni li cerca a uno ad uno, contattando le famiglie che, sorprese e felici, hanno tirato fuori dai cassetti gli scatti dimenticati.

E’ nato così “Faces of Agira” (I volti di Agira), progetto che viaggia sui social per dare una memoria a soldati di fatto sconosciuti, e che si lega profondamente al Wrap (Walking for Remembrance & Peace) il “cammino” che un gruppo di canadesi, guidati da Steve Gregory, ha condotto sulle tracce delle truppe alleate nel luglio 1943, da Marzamemi e Pachino, luoghi dello sbarco, ad Adrano. Una toccante commemorazione, al suono delle cornamuse dei Seaforth Highlanders, ha chiuso il Wrap, avviato il 10 luglio a Pachino.

Al cimitero di Agira si sono ritrovati in tanti al tramonto: dopo un primo ricordo, un particolare “saluto al sole” di un militare canadese, nativo pellerossa, è stato letto l’elenco dei caduti: ad ogni nome, una voce, un distino “presente”. C’era anche Tony Loffreda, unico senatore canadese di origine italiana, che ha voluto seguire l’intero “cammino”. “Tjarco Schuurman ha dato loro un viso, noi abbiamo aggiunto un segno della nostra memoria”, ha detto Gregory.

In tre anni, costruendo un’imponente rete di contatti e di volontari anche tra gli abitanti di Assoro e Agira, Schuurman è riuscito ad abbinare 480 foto ai nomi dei caduti, degli oltre 500 militari sepolti in questo cimitero bianco. Quando gli viene chiesto come è stata accolta la sua richiesta dalle famiglie dei caduti, Schuurman risponde che “alcune neanche sapevano che un loro parente era morto in Sicilia, ma hanno comunque cercato le immagini in cassetti e armadi. Mancano ancora una ventina di foto, ma non ci fermiamo”. A Marzamemi sono stati piantati sulla spiaggia di fronte al mare, 130 markers (marcatori), in ricordo di coloro che non sono morti in battaglia, ma sono caduti durante le operazioni dello Sbarco o facevano parte degli equipaggi dei velivoli abbattuti in Sicilia.

Nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, più di 25 mila soldati della 1 Divisione di fanteria e della 1 Brigata corazzata del Corpo di spedizione canadese al comando del Maggior Generale Harry Crerar, sbarcarono tra Marzamemi e Pachino, nella Sicilia orientale. Sole cocente, pochissima acqua potabile, strade polverose: i volontari canadesi sono disorientati ma procedono abbastanza speditamente verso il cuore dell’isola e all’inizio non incontrano resistenza.

“Gli americani marciano verso Palermo e gli inglesi tagliano la costa verso Catania: i canadesi rimangono al centro dove si ritroveranno impegnati nella conquista di cittadine arrampicate sui monti, vere roccaforti tedesche e italiane” ricorda lo storico Alfio Caruso. Il 16 luglio i Loyal Edmonton entrano a Piazza Armerina, poi a Valguarnera, Enna, Assoro, Leonforte, Nissoria e infine Agira: è la battaglia più sanguinosa, migliaia saranno le vittime civili sotto i bombardamenti, e altrettanti i militari dei due schieramenti che restano sul terreno, tra cui un numero altissimo di canadesi, oggi sepolti nel cimitero militare di Agira.

“Mio nonno è stato interprete durante la Seconda guerra mondiale, noi olandesi dobbiamo parecchio al Canada – spiega Tjarco Schuurman -. Da qui sono partito per dare un viso a queste tombe. Vogliamo cambiare il modo in cui si guarda alla guerra: non più grandi eroi o storie conosciute, ma semplici militari, ragazzi che partirono volontari perché credevano nella pace”.

Furono i canadesi a costruire il primo ponte Bailey in Europa sotto il fuoco nemico: lo allestirono in una sola notte, tra il 21 e il 22 luglio 1943, i genieri dei Royal Canadian Engineers per superare la gola Strigilo’ visto che i tedeschi avevano fatto saltare l’unica via d’accesso alla cittadina di Leonforte, nelle campagna di Enna, il ponte sul torrente Petrangelo sulla SS121. Per ricordare questa battaglia e l’altissimo numero di caduti delle diverse bandiere, canadese, italiana e tedesca, proprio a Leonforte è stato inaugurato un monumento che riproduce quel ponte Bailey che permise agli alleati la conquista della cittadina che ospitava la più importante, linea difensiva tedesca.

“Questo monumento – spiega Gregory – per noi è molto importante perchè ci permette di ricordare e lasciare una traccia dei quasi 600 militari canadesi caduti durante l’Operazione Husky”. La battaglia per la presa di Leonforte duro’ tre giorni interi, e vide contrapposte la 2a Brigata canadese con l’artiglieria divisionale, contro elementi della 15a Panzergrenadier – Division tedesca supportati da reparti della 4a Divisione Livorno.

Gli Engineers canadesi cercarono a più riprese di superare il burrone Petrangelo per raggiungere la cittadina, ma finirono sotto il fuoco delle mitragliatrici e dei mortai tedeschi e persero molti uomini: i pochi che riuscirono a risalire la gola e passare, si trovarono coinvolti in combattimenti all’arma bianca, nell’assenza di comunicazioni radio, ed ebbero la peggio, mentre la popolazione di Leonforte (soprattutto donne e bambini) si era rifugiata nella galleria della ferrovia: i morti civili furono 33, la più piccola di 5 anni, il più anziano di 61.

“L’unica possibià fu quella di far intervenire i carri armati che pero’ non potevano superare il vallone: mentre i Loyal Edmonton combattono fuori dall’abitato, i genieri si mettono al lavoro sotto il comando dell’ingegnere capo, tenente colonnello Geoff Walsh e installano il primo ponte Bailey europeo”, spiega lo storico Angelo Plumari. è una struttura in ferro e acciaio a moduli che viene montata ed estesa man mano che viene costruita: non appena una sezione di 3,05 metri di lunghezza è pronta, viene spinta su rulli e fissata alla sezione successiva, soltanto cosi’ riuscirà a sostenere carichi pesanti. Soltanto transitando sul ponte, i carri armati alleati potranno raggiungere e conquistare Leonforte.

I canadesi pagheranno un prezzo alto: 57 morti e 105 feriti, tra i quali anche due Seaforth Highlanders pellerossa, i primi dei 50 volontari delle tribù native del Canada. Ma molti di più furono i caduti italiani e tedeschi: tra questi il sottotenente Luigi Scapuzzi, decorato al Valor militare ed altri sconosciuti che riposano in tombe senza croce. Il ponte Bailey di Leonforte resta il primo di una lunga serie: durante la Seconda Guerra Mondiale solo in Italia furono costruiti più di 3000 ponti Bailey, con una lunghezza totale di 90 km, per sostituire i ponti distrutti dai tedeschi.

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È morto Luca Di Meo, fu Luther Blissett e Wu Ming 3

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AGI – È morto a 59 anni Luca Di Meo, autore del collettivo Luther Blissett e poi Wu Ming 3. Si è spento domenica nel suo appartamento di Bologna dopo una lunga malattia. Quindici anni fa aveva lasciato Wu Ming, che dà notizia della sua scomparsa sul sito web del collettivo.

Nella seconda metà dei Novanta Di Meo fece parte del gruppo che scrisse ‘Q’, il romanzo destinato a segnarne il destino. La sua ultima apparizione in pubblico con gli altri autori risale al 2019 per il ventennale del romanzo. 

Nel dare la notizia della separazione i Wu Ming scrivevano: “Si manifesta all’esterno come un fulmine a ciel sereno (…) Chiarimenti, tentativi, esperimenti, le abbiamo provate tutte. Abbiamo tentato il possibile e anche una fetta d’impossibile per superare gli ostacoli e mantenere il collettivo nella sua formazione usuale, ma ci siam dovuti arrendere (…) Lo abbiamo fatto con un umore non facile da descrivere. È l’umore con cui guadagni l’uscita d’emergenza se il cinema va a fuoco: hai pagato il biglietto, ma pazienza. Il film piaceva a tutti, ma pazienza”.

Lo stesso il tono usato per annunciare la morte dell’ex compagno di scruitture. “Anche oggi, come quindici anni fa, l’umore è difficile da descrivere. Non metteremo in fila aneddoti: la prima volta che lo incontrammo, quel giorno che lui, le ultime parole scambiate… Niente. Non aggiungeremo a queste altre parole. Almeno per un bel pezzo. Quel che abbiamo fatto insieme è stato importante, e rimane. Il resto lo teniamo per noi. Il resto è il rispetto che dobbiamo alla nostra storia comune”.

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Addio a Martin Walser, lo scrittore stufo della colpevolizzazione della Germania

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AGI – Lo scrittore tedesco Martin Walser, figura centrale della letteratura contemporanea in Germania, è morto all’età di 96 anni a Uberlingen, nel sud-ovest del paese, dove risiedeva dalla fine degli anni ’60.

È considerato uno dei maggiori romanzieri tedeschi del dopoguerra alla stregua di Gunter Grass o Heinrich Boll, anche se non ha mai raggiunto la notorietà internazionale di questi ultimi. “Geniale e provocatorio”, secondo la ZDF, fece scandalo alla fine degli anni ’90 quando ammise in un discorso di averne abbastanza della “rappresentazione permanente” del passato nazista, innescando in Germania un enorme dibattito di merito sugli orrori della memoria del Terzo Reich.

In particolare aveva dichiarato di “distogliere lo sguardo” quando i crimini nazisti venivano trasmessi in televisione e denunciava una “strumentalizzazione di Auschwitz per scopi attuali”, una “mazza morale” che sarebbe stata costantemente brandita contro la Germania. Accusato di voler reprimere il passato nazista, si difese ma affermò che una ripetizione costante delle rappresentazioni di questi crimini ne banalizzava l’orrore.

#DasWortzumSonntag spricht Martin #Walser pic.twitter.com/4pPCIJCvOm

— storymakers (@mz_storymakers)
July 28, 2023

Nel 2002, in “Morte di un critico”, attaccò il critico letterario più famoso della Germania, Marcel Reich-Ranicki, ebreo sopravvissuto al ghetto di Varsavia, il che creò un nuovo scandalo nel suo Paese e lo fece sospettare di antisemitismo. Dai documenti dell’archivio centrale del partito nazista risulta che entrò a far parte di quest’ultimo nel gennaio 1944, fu un soldato dell’esercito tedesco.

Nato il 24 marzo 1927 a Wasserburg, Martin Walser eccelleva nella descrizione dei microcosmi piccolo-borghesi, da cui lui stesso proveniva. Dopo la guerra consegui’ il diploma di maturità e poi studiò lettere, storia e filosofia.

Si affermò nel 1955 con una raccolta di racconti, poi, due anni dopo, con il suo primo romanzo e grande successo letterario, “Des Married à Philippsburg”, che lancia la sua lunga e prolifica carriera.

La notizia della morte, anticipata da alcune emittenti televisive, è stata confermata da un mesaggio del presidente della Repubblica Federale, Frank-Walter Steinmeier che parlato “di un grande uomo e uno scrittore di livello mondiale”. “Piangiamo Martin Walser. Non lo dimenticheremo”, ha scritto il presidente tedesco nelle condoglianze rivolte alla vedova dello scrittore, Kathe Walser. “Il suo lavoro abbraccia più di sei decenni e ha segnato in modo decisivo la letteratura tedesca in questo periodo”, ha aggiunto. “In qualità di brillante analista dei mondi interiori umani, non ha mai smesso di interrogarsi per iscritto e di coinvolgere i lettori in questo processo”, ha stimato Steinmeier nelle sue condoglianze.

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Il filo che unisce tradizione e futuro. L’arte del cucito di Antonia Murgolo

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AGI – Un arco, una piccola serpentina, qualche scalino in alto, per scoprire la via dell’Anima. È la porta d’accesso al piccolo e arroccato borgo di Forenza, prezioso gioiello del Potentino, dove l’arte del cucito di Antonia Murgolo, rappresentante pugliese della Corporazione delle Arti, l’ha fatta da padrona. Tra telai e punti di ricamo antichi, memorie d’un passato che si perde ogni giorno di più, e imperiosa una preziosa scoperta: uno stendardo del Seicento, della chiesa del Santissimo Sacramento di Modugno, nel Barese, ricamato con tecnica giapponese.

“Nessuno poteva immaginare che in Puglia, in quel tempo, conoscessero quella raffinata arte – spiega Murgolo all’Agi -. Ora, per studiarla, impararla, bisogna andare in Inghilterra e noi non possiamo assolutamente perdere questo patrimonio: è mia volontà poter insegnare ai più giovani tutto ciò che ho imparato”. Cinquantasettenne di Bitonto, città alle porte del capoluogo pugliese, Antonia si è diplomata in un istituto tecnico e poi, soltanto dieci anni fa, ha cominciato a studiare da autodidatta le tecniche perdute di ricamo e cucito.

Sono stata sempre appassionata dell’arte del ricamo e dell’uncinetto, da bambina, da quando vedevo scorrere il filo tra le mani di mia nonna – ci racconta -. Ora per me è diventato un lavoro e nutro il sogno di non far morire questo sapere: vorrei recuperare manufatti che stanno andando perduti, assieme a tecniche, tessuti e sete preziose che si ritrovano soprattutto in paramenti sacri e abiti reali”.

Al lavoro nel suo piccolo laboratorio di Modugno, ci sono anche Mariella Desario, Carmela Veneto e Orsola Murgolo: “Ridiamo valore a un vecchio lavoro, ma soprattutto dignità alle donne – dice soddisfatta Antonia -. Non dobbiamo immaginare il cucito come un’arte per donne dietro la finestra, nei palazzi nobili, ma un’arte che prevede fatica, come montare un telaio, che può causare dolore, e per questo indossiamo ditali, ma ridà fiducia e indipendenza a chi lo pratica. Immaginate se ricominciassero i giovanissimi a farlo? Sarebbe meraviglioso”. 

A febbraio 2024, le creazioni di Antonia, Mariella, Carmela e Orsola voleranno alla volta di Torino: “Porteremo abiti, camicie, giacche, create con il tombolo, filet modano, ma anche gioielli in chiacchierino, considerato un pizzo risalente all’epoca Vittoriana, impreziositi da filati pregiati e pietre”. E conclude speranzosa: “L’arte del cucito deve oltrepassare i confini e tornare viva. L’arte non deve morire”.

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Mattarella visita la Chiesa di Santa Maria di Gesù distrutta dall’incendio: “È una ferita” 

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AGI – Era uno scrigno di capolavori artistici e storici la quattrocentesca chiesa di Santa Maria di Gesù a Palermo, distrutta il 25 luglio scorso da uno degli incendi di origine dolosa che nei giorni scorsi hanno colpito la città e la regione. Il danno provocato dalla mano dei piromani è enorme. 

Le fiamme hanno prima aggredito la vegetazione sul costone roccioso del Monte Grifone che domina la località, poi si sono propagate nell’edificio: è crollato il prezioso soffitto ligneo dipinto; distrutti il coro ligneo dei frati e l’organo a canne ivi custodito, la statua lignea quattrocentesca di S. Maria di Gesù, una statua ottocentesca in legno della Vergine Assunta e il relativo abito ricamato, dono della regina Maria Teresa d’Austria.

Gravemente danneggiati anche i manufatti marmorei presenti all’interno della chiesa e i corpi di san Benedetto il Moro (compatrono di Palermo che qui svolse l’ultima parte della sua vita da eremita)  e del beato Matteo d’Agrigento. Una grave perdita spirituale e artistica per l’intera città di Palermo e la Sicilia. 

“Dovevo venire qui, perchè è una ferita” ha detto il presidente della repubblica Sergio Mattarella, che questa mattina si è recato in visita alla struttura, accompagnato dall’arcivescovo di Palermo, monsignor Corrado Lorefici, dal sindaco di Palermo, Roberto Lagalla e dal presidente della regione Sicilia, Renato Schifani.

A Santa Maria del Gesù sono sopravvissute finora usanze antiche, come la coltivazione degli agrumi, arance e limoni, tipici della ex Conca d’Oro. La chiesa è nota, inoltre, per ospitare al suo interno le tombe della famiglia Florio, la dinastia industriale protagonista della Belle Epoque palermitana, raccontata nel best sellers “I leoni di Sicilia” dalla scrittrice trapanese Stefania Auci. Che ora si dispera: “Sembra una chiesa bombardata – ha detto tra le lacrime – che nessuno giri la faccia dall’altra parte: è successo in Sicilia ma può accadere dovunque». 

 

 

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Ottant’anni fa il compleanno dell’ex Duce a Ponza

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AGI – Nell’ultima settimana di luglio del 1943 i tedeschi sono attivamente impegnati nella caccia a  Mussolini secondo gli ordini impartiti direttamente da Hitler. Eugen Dollmann, colonnello onorario delle SS, interprete ufficiale del Führer per la lingua italiana, diplomatico ufficioso ottimamente introdotto in tutti gli ambienti romani, il 27 luglio è invitato a cena dal Feldmaresciallo Albert Kesselring nella sede del suo quartier generale a Frascati.

«Serio in volto, rabbuiato addirittura, il maresciallo mi presentò laconico agli altri due commensali, il generale dei paracadutisti Student […] e un giovane capitano della Luftwaffe, Skorzeny. Alla tavola di Kesselring la conversazione era di solito animatissima, ma quella sera spirava aria da cimitero.

La cena dal Feldmaresciallo Albert Kesselring

Student, che soffriva per una grave ferita alla testa, non diceva una parola, e Skorzeny non fece che squadrarmi, quasi divorandomi con gli occhi e nel noto stile inquisitorio della Gestapo, cosa contrastante in maniera vivissima e sospettosissima con la sua uniforme e col carattere generalmente allegro degli aviatori. Dopo cena, il maresciallo mi disse che i due ufficiali volevano parlarmi da soli, per una faccenda assai grave.

Ci trasferimmo in un’altra stanza e lì venne prestato giuramento di tacere sino alla morte, trattandosi di un segreto del Reich. I due avevano l’incarico di mettermi al corrente di un piano del Führer che in poco tempo avrebbe dovuto far cadere nelle loro mani ministri, corona e membri della famiglia reale.

Student, brevissimo, cedette subito la parola all’altro, che espose un progetto divertente e puerile […]. Fino a quel momento, a Roma sapevano della cosa soltanto Kesselring, il maresciallo [Wolfram von] Richthofen, allora a Frascati anche lui, e io. All’ambasciatore von Mackensen e ai suoi collaboratori non bisognava assolutamente dire nulla […]. Mi dichiarai incompetente a esprimere un giudizio sopra un’azione di spiccato carattere militare e di polizia, e proposi che s’interpellasse Kappler, tecnico e fiduciario di Himmler a Roma».

Kappler sulla scia di Mussolini

Kappler  ritiene subito che siano state invase le sue competenze di polizia, ma non può discutere l’ordine di Hitler. E da quel momento si mette sulla scia di Mussolini. Finora tutte le notizie si interrompono alle 18 del 25 luglio. I servizi segreti italiani sotto la guida del generale Giacomo Carboni l’hanno fatto letteralmente sparire mentre lo trasferivano a Ponza.

Vengono fatte circolare ad arte versioni, indiscrezioni, rapporti attribuiti a diplomatici, ad autorità del governo italiano e del Vaticano, a generali: l‘ex Duce sarebbe ricoverato in un ospedale militare, nascosto a Roma, trasferito nel neutrale Portogallo e nel Nord Africa sotto controllo alleato. Le autorità svizzere il 29 luglio devono smentire che abbia passato la frontiera.

Voci fantasiose su dove si trova Mussolini 

Una fonte madrilena asserisce che Mussolini non si trova in Spagna ma a Viareggio. La notizia più fantasiosa arriva da Stoccolma, quando si sostiene che è stato arrestato mentre cercava di raggiungere il Reich; un dispaccio da Berna ribadisce invece che è prigioniero del Regio Esercito, ma naturalmente non dice dove. Da Roma viene diffusa la notizia che Mussolini è con la sua famiglia alla Rocca delle Caminate, in pensione.

Coglie nel segno una nota datata Berna, che fa di Mussolini un prigioniero dell’esercito, senza però indicare dove. Sia Kesselring sia Mackensen cercano di carpire l’informazione agli italiani, senza alcun successo. Himmler, sempre sensibilissimo all’esoterismo, riunisce a Berlino astrologi, cartomanti e veggenti  in una foresteria della centrale del Sicherheitsdienst sul lago di Wannsee e l’esito di quella riunione è che si trova «in un luogo circondato dall’acqua».

Intanto il capo della Polizia aveva infiltrato nell’entourage di Kappler il giovane funzionario della sua segreteria, Raffaele Alianello: il tedesco era convinto di ricevere confidenze e informative, e invece era l’italiano a raccoglierne per conto di Carmine Senise: «l’invogliai a mettersi più che mai alle costole di Kappler, specialmente nelle ore serali, e quando i tedeschi per abbondanti libazioni sono di solito facili ad aprire il loro animo. Alianello assolse assai bene il suo compito e seppe accattivarsi a tal punto la fiducia del Kappler che questi gli confidò, in gran segreto, che il colpo era stato deciso, ma si aspettava l’occasione per eseguirlo; gli promise inoltre che al momento decisivo gliene avrebbe dato notizia telefonica, in una forma convenuta, che Alianello portò anche a mia conoscenza».

Il 29 luglio l’ex duce compie 60 anni a Ponza 

Kesselring il 29 luglio chiede formalmente a Badoglio di voler vedere il Duce per consegnargli personalmente il regalo di compleanno di Hitler, l’opera omnia di Friedrich Nietzsche in edizione esclusiva e con dedica del Führer («Adolf Hitler seinem lieben Freunde Benito Mussolini»), ma Badoglio replica che avrebbe provveduto lui stesso, e sarà di parola per quanto in ritardo.

Il 29 luglio Mussolini compie sessant’anni e a Ponza lo raggiunge il telegramma augurale di Göring, consegnatogli da un carabiniere arrivato di proposito da Roma. 

 

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Bruno Todaro, il ‘cavaliere del mare’ nella seconda guerra mondiale

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AGI – Combatteva sopra e sotto l’acqua con lo stesso spirito dei “cavalieri del cielo” della prima guerra mondiale. Per lui il bersaglio da colpire non era l’uomo, ma la nave: immediatamente dopo l’assalto scattava infatti la legge del mare, quella della solidarietà, indipendente dalle bandiere, dagli schieramenti, dalle esigenze militari e dalle convenienze personali.

Il capitano di corvetta Salvatore Bruno Tòdaro è stato un “cavaliere del mare” nel senso più nobile del termine, perché nel pieno della seconda guerra mondiale non abdicò mai ai valori dell’umanità.

Bruno Todaro “cavaliere del mare” 

Glielo riconobbero amici e nemici. Soprattutto i nemici, quelli che furono da lui affondati con i siluri e le cannonate del sommergibile atlantico della Regia Marina “Comandante Cappellini” posto ai suoi ordini dal 26 settembre 1940.

Todaro aveva appena compiuto 32 anni. Nato a Messina nel 1908, appassionato del mare, una volta dall’Accademia navale di Livorno aveva avuto esperienze anche in cielo come osservatore distaccato nel 1933 presso la Regia Aeronautica, riportando un grave infortunio che lo avrebbe segnato nel fisico.

L’anno successivo era stato imbarcato come comandante in seconda sul sommergibileMarcantonio Colonna”, quindi sul “Des Geneys”, per poi, nel 1937, essere promosso comandante. I gradi da capitano di corvetta arrivano venti giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il I luglio 1940.

Dal comando del “Luciano Manara” passa a quello del Cappellini”, inviato a Bordeaux nella base oceanica Betasom, da dove si conduce la guerra sottomarina sulla rotta atlantica per spezzare le linee di rifornimento che da gli Stati Uniti aiutano lo sforzo bellico della Gran Bretagna.

L’Italia possiede nominalmente la più grande flotta sottomarina tra i Paesi in guerra, ma è risaputo che quella tedesca è qualitativamente di molto superiore, e del tutto più evolute sono le strategie dei “branchi di lupi” dell’ammiraglio Karl Dönitz. Tutti i sommergibilisti sono comunque altamente considerati per il loro valore, élite tra tutte le truppe combattenti. Le loro imprese hanno infatti una vasta eco sui mezzi di informazione e sui bollettini militari

L’affondamento del piroscafo “Kabalo” e il salvataggio dei naufraghi 

Gli italiani hanno forse qualcosa in più, come testimonia l’episodio del piroscafo armato “Kabalo”, battente bandiera belga ma aggregato al convoglio britannico OB 223 che ha smarrito nei pressi delle Canarie e con carico bellico a bordo, affondato dal “Cappellini” di Todaro a colpi di cannone.

Fin qui sarebbe una normale operazione, vittoriosa, se non fosse che il comandante, una volta mandata a picco la nave, accosta e raccoglie i 26 naufraghi su una zattera rimorchiata dal suo scafo. Poi, per le condizioni del mare, li fa salire a bordo e li fa sbarcare in salvo alle Azzorre, nel neutrale Portogallo.

Quel gesto prima stupisce i belgi, poi li commuove. Non si commuove Dönitz, per il quale sono prioritarie le esigenze belliche, e si sa che i tedeschi rimproverano costantemente gli italiani per il loro sentimentalismo. Lo faranno anche perché nella Francia occupata, e poi in Jugoslavia e in Grecia a seguito dell’aggressione dell’Asse, i militari italiani si rifiutano di consegnare gli ebrei ai tedeschi.

L’eredità di 2000 anni di storia 

È diventata leggenda la risposta di Todaro alle osservazioni del potente ammiraglio, quando si dirà orgoglioso dei duemila anni di civiltà che sono la sua eredità di italiano. Civiltà contro barbarie, legge del mare contro le leggi di guerra.

E infatti si comporterà allo stesso modo a dicembre con i naufraghi del piroscafo armato “Shakespeare”, anch’esso affondato a cannonate, che porterà in salvo a Capo Verde. L’abilità nel combattimento non solo con i siluri ma pure con l’artiglieria, gli varrà un commento tra l’ammirato e lo sprezzante di Dönitz, secondo il quale avrebbero potuto affidargli il comando di una cannoniera.

Dopo aver colato a picco l’”Emmaus” in un violento combattimento, riuscirà a sfuggire alla caccia britannica, a sbarcare i feriti in un porto spagnolo, a effettuare le riparazioni e a riguadagnare la base di Bordeaux.

Medaglia d’argento al valor militare 

Sul suo petto viene appuntata la prima medaglia d’argento al valor militare, che si aggiunge alle due di bronzo di cui è già insignito e che sarà seguita da un’altra d’argento per le imprese nell’Atlantico e un’altra ancora per l’impresa di Sebastopoli, nel giugno del 1942, sul Mar Nero.

È già transitato, su richiesta, nella Xª Flottiglia Mas, e opera come comandante sui mezzi d’assalto col grado di capitano di corvetta. Il 13 dicembre 1942 il motopeschereccio armato “Cefalo”, che lui comanda, di rientro da una missione notturna al largo della Tunisia  è intercettato e mitragliato da un caccia Spitfire. Una scheggia raggiunge Todaro alla tempia, uccidendolo sul colpo.

Gli viene assegnata la medaglia d’oro al valor militare alla memoria, e nella motivazione è riportato che «dimostrava al nemico come sanno combattere e i vincere i marinai d’Italia». Non c’è scritto che i marinai d’Italia, sanno anche insegnare come si vive.

Il nome di Salvatore Bruno Todaro, capitano coraggioso, è stato perpetuato dalla Marina Militare prima con una corvetta antisommergibile in servizio dal 1966 al 1994, e dal 2007 con un sommergibile.

 

 

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Cultura

Confermato il concerto di Springsteen al Parco di Monza

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AGI – È confermato il concerto di Bruce Springsteen questa sera nel Prato della Gerascia, all’interno dell’Autodromo Nazionale di Monza, dove sono attesi oltre 70 mila spettatori. L’ufficialità della decisione, già anticipata dagli organizzatori di Barley Arts, è arrivata dal Comune.

“Sentita la Prefettura e le autorità preposte alla sicurezza, infatti, il Parco risulta agibile e le condizioni di sicurezza idonee per accogliere le 70.000 persone attese in città”, recita un comunicato. Gli ultimi temporali che si sono verificati nella notte non hanno pregiudicato l’area dell’evento.

Le squadre comunali stanno completando la rimozione degli ultimi alberi e rami per liberare i viali di accesso verso il prato della Gerascia. “A breve – rende noto l’amministrazione comunale – saranno aperti i varchi per consentire l’accesso ai tanti fan che hanno già raggiunto Monza per il concerto di stasera”. 

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Cultura

È morto Marc Augé, l’antropologo dei ‘non-luoghi’

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AGI – É scomparso oggi, a 87 anni, Marc Augé, grande antropologo, etnologo, scrittore e filosofo.

“Con Augé se ne va un amico e un maestro che ha dato al festivalfilosofia e al suo pubblico – sottolineano i curatori del festival culturale di cui Augé è stato membro per anni – come a tanti pubblici sparsi in tutto il mondo, alcuni insegnamenti dai quali non si torna indietro, come l’idea che le nostre pratiche culturali siano immerse in sistemi simbolici che è indispensabile studiare con gli strumenti dell’antropologia: una disciplina che Augé, grande specialista del terreno africano, ha praticato anche rivolgendo quel particolare tipo di sguardo alle nostre società, nella convinzione che, per essere intelligibili, i processi culturali implichino che nella loro analisi ci rendiamo “stranieri a noi stessi”.

Marc Augé, già directeur d’études presso l’école des Hautes études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi, di cui è stato a lungo Presidente, dopo aver contribuito allo sviluppo delle discipline africanistiche ha elaborato un’antropologia dei mondi contemporanei attenta alla dimensione rituale del quotidiano e della modernità.

Ha elaborato la teoria dei ‘non luoghi’, ovvero luoghi come centri commerciali, autostrade, supermercati in cui ogni riferimento a identità e temi relazionari, identitari o storici vengono canellati 

Tra le sue opere tradotte di recente: Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernita’ (Milano 1993); Tra i confini. Citta’, luoghi, interazioni (Milano 2007); Il mestiere dell’antropologo (Torino 2007); Il bello della bicicletta (Torino 2009); Il metro’ rivisitato (Milano 2009); Per un’antropologia della mobilita’ (Milano 2010); Straniero a me stesso (Torino 2011); Futuro (Torino 2012); Per strada e fuori rotta (Torino 2012); Le nuove paure (Torino 2013); Etica civile: orizzonti (con L. Boella, Padova 2013); I paradossi dell’amore e della solitudine (Modena 2014); L’antropologo e il mondo globale (Milano 2014); Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste (Milano 2014); Fiducia in sé, fiducia nell’altro, fiducia nel futuro (Roccafranca 2014); La forza delle immagini (Milano 2015); Le tre parole che cambiarono il mondo (Milano 2016); Un altro mondo é possibile (Torino 2017); Sulla gratuita’. Per il gusto di farlo! (Milano 2018); Chi é dunque l’altro? (Milano 2019); Condividere la condizione umana. Un vademecum per il nostro presente (Milano 2019).

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