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Il tristellato Uliassi mette in menù gli “speghetti” di Checco Zalone

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AGI – “Un giorno è venuto qui a mangiare Checco Zalone e mi ha invitato a una cena dove avrebbe cucinato gli spaghetti all’assassina. Piatto tipico di Bari che ultimamente nei social sta spopolando”, racconta al Gambero Rosso l’ottimo chef Mauro Uliassi, sempre in testa a tutte le classifiche gastronomiche, il cui ristorante a Senigallia “è valutato con 3 stelle Michelin, 5 cappelli Espresso, 3 forchette del Gambero Rosso”, come si evince dal suo sito ufficiale.

E a lui in testa si è accesa subito la lampadina della creatività e della replicabilità dell’idea. Gli spaghetti all’assassina non è tuttavia né una ricetta antica né un piatto di recupero, come in genere si ritiene, bensì “un piatto antico della tradizione barese”, la cui nascita, risale al 1967 quando Enzo Francavilla, foggiano, titolare del Sorso Preferito a Bari, li inventò di sana pianta per due clienti che si erano accomodati ai tavoli della sua trattoria. E da quel momento “gli spaghetti all’assassina entrarono a far parte del menu del Sorso Preferito a Bari”, per altro ancora in attività, conquistando altri clienti e viaggiando di ristorante in ristorante, fino a divenire uno dei piatti simbolo di Bari.

Una storia intrigante che ha conquistato anche Mauro Uliassi, che così racconta: il piatto: “Nasce da una chiacchierata con Luca Medici, in arte Checco Zalone, una persona straordinaria, così come tutta la compagnia con la quale è venuto qui a pranzo. A un certo punto mi ha invitato a una festicciola nel suo hotel la sera, dove avrebbe cucinato gli spaghetti all’assassina. Grande classico di Bari che, diciamolo, non è tecnicamente corretto: in pratica gli spaghetti vengono messi a crudo nel pomodoro e poi man mano si aggiunge il brodo fatto con la conserva, ma il vero segreto è di farli attaccare alla padella più e più volte. Eppure, con i miei ragazzi, ci allettava molto l’idea di inserire questo piatto nel Lab”. 

Il risultato è “aver estrapolato la caratteristica principale della pasta all’assassina, la sua piccantezza, creando una salsa all’arrabbiata dove al posto del pomodoro abbiamo utilizzato il peperone rosso lungo, che ha una piccantezza di livello medio e poco persistente. Dopodiché, con i gambi di prezzemolo, abbiamo fatto una specie di tabbouleh, l’aglio lo abbiamo messo in infusione nell’olio e a cristalli leggermente tostato, e ci abbiamo aggiunto la ‘nduja e un olio fatto con l’ajowan, che ha un marcato sentore cuminoso”. 

La pasta, poi, va resa croccante senza bruciarla mentre la cottura tradizionale non lo permette. Va invece azzeccato il punto di cottura dove la pasta cede ed è poi facile da arrostire. Formato ideale: il fusillone di Pietro Massi cucinato in acqua per 34 minuti a fronte dei 12 minuti normali. Una volta stracotto viene freddato e arrostito in padella e sotto la salamadra, ottenendo una tostatura che di fatto è due passi indientro rispetto alla bruciatura. Ecco servita la pasta all’assassina di Uliassi: fusillo in bianco arrostito (morbido al centro e croccante fuori) con sugo all’arrabbiata di peperone rosso, ‘nduja, cristalli di aglio tostato, olio di ajowan e tabbouleh di prezzemolo. Il tutto accende le papille.

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Robert De Niro fa 80 anni 

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AGI – Robert de Niro, nato a New York il 17 agosto 1943, compie 80 anni. E a New York, precisamente a Greenwich Village, festeggerà il suo compleanno più importante senza dimenticare le sue origini, scegliendo un ristorante rigorosamente italiano.

Tutti infatti sanno che i nonni paterni, Giovanni Di Niro (un errore di pronuncia ha comportato la trascrizione De Niro) e Angelina Mercurio erano originari di Ferrazzano, in provincia di Campobasso. L’Italia è praticamente la sua seconda patria, ed ha anche la cittadinanza.

E’ cresciuto con la madre a Little Italy ed ama definirsi italo-americano. Recentemente lo abbiamo visto a Napoli con Paolo Sorrentino ma la sua vera casa resta New York. Nel corso della sua carriera è stato gangster e poliziotto, detective e criminale, anche comico.

Vanta due premi Oscar e ben sette figli, l’ultimo lo ha avuto a 79 anni. Ora à in lizza per un terzo Oscar, per The Monn Killers, con il suo amico di altrettante origini italiane, Martin Scorsese. 80 anni passando per “Toro Scatenato” (1980), “Taxi Driver” (1976), “Il Padrino Parte II” (1974), “New York, New York” (1977), “Il Cacciatore” (1978), “C’era una volta in America” (1984), “The Mission” (1986), “Angel’s Heart” (1987), “Uno di noi” (1990), “Cape Fear” (1991), “Una storia del Bronx” (1993), “Casino'” (1995), “Heat” (1995), “Sleepers” (1996), “La stanza di Marvin” (1996), “Jackie Brown” (1996) o “Ronin” (1998).

Tutti questi, sono solo “alcuni” dei titoli delle pellicole che ha interpretato. Con Scorsese che era del suo stesso quartiere, ha realizzato una dozzina di film, tutti capolavori. Brian de Palma lo scopri’: porto’ sul grande schermo un bel ragazzo dagli occhi nerissimi con quell’inconfondibile neo sulla guancia.

Nell’immaginario comune, nonostante le tante pellicole, siamo abituati a ricordarlo prima di tutto per l’interpretazione di Vito Corleone nella seconda parte de “Il Padrino” e per il mitico “C’era una volta in America”. Si dice che De Niro abbia trascorso ben 4 mesi in Sicilia per imparare a recitare nel fatidico accento. Altre “metamorfosi” le fece per recitare in “Toro Scatenato”, prendendo ben 27 chili.

Sapeva trasformarsi sul set in uno psicopatico, in assassino, quasi sempre in un antieroe, persino nel diavolo. Tenero in “Manuale d’amore 3” in cui interpreta la parte di un prof universitario americano residente a Roma dalla morte della moglie, che vive un rapporto cui tenta di sottrarsi in tutti i modi, con la giovae ed esuberante figlia del portiere, interpretata da Monica Bellucci.

Per lei si esibirà in un celebre spogliarello. Lunga, lunghissima la carriera di Robert che ha interpretato anche ruoli comici come in “Mi presenti i tuoi?” e relativi sequel, con Ben Stiller. Si è anche cimentato nella regia con l’esordio nel 1993 autodirigendosi al fianco di Chazz Palminteri nel film “Bronx”, e poi mettendosi dietro la macchina da presa per altre pellicole. Decisamente movimentata la sua vita sentimentale.

L’italoamericano Robert De Niro ha sette figli nati da quattro donne diverse: con Diahnne Abbott – con cui è stato sposato dal 1976 al 1988 – ha adottato una figlia, Drena (1971), nata da una precedente relazione della moglie e ha avuto il figlio biologico Raphael (1976).

Nel 1995 da Toukie Smith sono arrivati i gemelli Julian Henry e Aaron Kendrik, tramite madre surrogata. Nel 1997 il matrimonio con Grace Hightower cui segue la nascita di Elliot (1998). Nel 2011 nasce, ancora da madre surrogata, Helen Grace sempre dalla Hightower. E nel maggio 2023 ecco l’ultimo figlio: a 79 anni, dalla storia con Tiffany Chen, nasce Gia Virginia.

E’ anche nonno di quattro nipoti. Il 18 ottobre 2006 Robert De Niro è stato naturalizzato italiano, pur conservando la cittadinanza statunitense. Per festeggiare il suo compleanno ha chiesto ai fan di votare il film preferito da lui interpretato. In Italia è stato notoriamente doppiato da Ferruccio Amendola che poi ha dovuto, per forza di cose, cedere il passo a Stefano De Sando.

E alla morte di Gianni Minà, qualcuno dagli archivi ha tirato fuori una celebre foto da “Checco er Carrettiere”, nota trattoria romana, che ritrae De Niro in compagnia del giornalista italiano, di Sergio Leone, Muhammad Ali e Garcia Marquez.

Si dice che la calamita per metterli tutti insieme in quell’invidiabile gruppo, fosse proprio il pugile. Intanto è stata storia. 

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Robert De Niro fa 80 anni 

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AGI – Robert de Niro, nato a New York il 17 agosto 1943, compie 80 anni. E a New York, precisamente a Greenwich Village, festeggerà il suo compleanno più importante senza dimenticare le sue origini, scegliendo un ristorante rigorosamente italiano.

Tutti infatti sanno che i nonni paterni, Giovanni Di Niro (un errore di pronuncia ha comportato la trascrizione De Niro) e Angelina Mercurio erano originari di Ferrazzano, in provincia di Campobasso. L’Italia è praticamente la sua seconda patria, ed ha anche la cittadinanza.

E’ cresciuto con la madre a Little Italy ed ama definirsi italo-americano. Recentemente lo abbiamo visto a Napoli con Paolo Sorrentino ma la sua vera casa resta New York. Nel corso della sua carriera è stato gangster e poliziotto, detective e criminale, anche comico.

Vanta due premi Oscar e ben sette figli, l’ultimo lo ha avuto a 79 anni. Ora à in lizza per un terzo Oscar, per The Monn Killers, con il suo amico di altrettante origini italiane, Martin Scorsese. 80 anni passando per “Toro Scatenato” (1980), “Taxi Driver” (1976), “Il Padrino Parte II” (1974), “New York, New York” (1977), “Il Cacciatore” (1978), “C’era una volta in America” (1984), “The Mission” (1986), “Angel’s Heart” (1987), “Uno di noi” (1990), “Cape Fear” (1991), “Una storia del Bronx” (1993), “Casino'” (1995), “Heat” (1995), “Sleepers” (1996), “La stanza di Marvin” (1996), “Jackie Brown” (1996) o “Ronin” (1998).

Tutti questi, sono solo “alcuni” dei titoli delle pellicole che ha interpretato. Con Scorsese che era del suo stesso quartiere, ha realizzato una dozzina di film, tutti capolavori. Brian de Palma lo scopri’: porto’ sul grande schermo un bel ragazzo dagli occhi nerissimi con quell’inconfondibile neo sulla guancia.

Nell’immaginario comune, nonostante le tante pellicole, siamo abituati a ricordarlo prima di tutto per l’interpretazione di Vito Corleone nella seconda parte de “Il Padrino” e per il mitico “C’era una volta in America”. Si dice che De Niro abbia trascorso ben 4 mesi in Sicilia per imparare a recitare nel fatidico accento. Altre “metamorfosi” le fece per recitare in “Toro Scatenato”, prendendo ben 27 chili.

Sapeva trasformarsi sul set in uno psicopatico, in assassino, quasi sempre in un antieroe, persino nel diavolo. Tenero in “Manuale d’amore 3” in cui interpreta la parte di un prof universitario americano residente a Roma dalla morte della moglie, che vive un rapporto cui tenta di sottrarsi in tutti i modi, con la giovae ed esuberante figlia del portiere, interpretata da Monica Bellucci.

Per lei si esibirà in un celebre spogliarello. Lunga, lunghissima la carriera di Robert che ha interpretato anche ruoli comici come in “Mi presenti i tuoi?” e relativi sequel, con Ben Stiller. Si è anche cimentato nella regia con l’esordio nel 1993 autodirigendosi al fianco di Chazz Palminteri nel film “Bronx”, e poi mettendosi dietro la macchina da presa per altre pellicole. Decisamente movimentata la sua vita sentimentale.

L’italoamericano Robert De Niro ha sette figli nati da quattro donne diverse: con Diahnne Abbott – con cui e’ stato sposato dal 1976 al 1988 – ha adottato una figlia, Drena (1971), nata da una precedente relazione della moglie e ha avuto il figlio biologico Raphael (1976).

Nel 1995 da Toukie Smith sono arrivati i gemelli Julian Henry e Aaron Kendrik, tramite madre surrogata. Nel 1997 il matrimonio con Grace Hightower cui segue la nascita di Elliot (1998). Nel 2011 nasce, ancora da madre surrogata, Helen Grace sempre dalla Hightower. E nel maggio 2023 ecco l’ultimo figlio: a 79 anni, dalla storia con Tiffany Chen, nasce Gia Virginia.

E’ anche nonno di quattro nipoti. Il 18 ottobre 2006 Robert De Niro è stato naturalizzato italiano, pur conservando la cittadinanza statunitense. Per festeggiare il suo compleanno ha chiesto ai fan di votare il film preferito da lui interpretato. In Italia è stato notoriamente doppiato da Ferruccio Amendola che poi ha dovuto, per forza di cose, cedere il passo a Stefano De Sando.

E alla morte di Gianni Minà, qualcuno dagli archivi ha tirato fuori una celebre foto da “Checco er Carrettiere”,nota trattoria romana, che ritrae De Niro in compagnia del giornalista italiano, di Sergio Leone, Muhammad Ali e Garcia Marquez.

Si dice che la calamita per metterli tutti insieme in quell’invidiabile gruppo, fosse proprio il pugile. Intanto è stata storia. 

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Oppenheimer, il dramma dell’uomo che inventò l’atomica

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AGI – Con ogni probabilità il film evento di quest’anno sarà ‘Oppenheimer’ di Christopher Nolan, in sala in Italia dal 23 agosto. La pellicola è uscita negli Usa e in altri Paesi ed è già record di incassi al box office mondiale: al 15 agosto 2023 ha incassato oltre 266 milioni di dollari nel Nord America e 384 milioni di dollari nel resto del mondo, per un totale complessivo di oltre 650 milioni di dollari. Un ottimo risultato per Nolan che probabilmente vedrà questa pellicola salire sul suo personalissimo podio insieme al secondo e terzo capitolo di Batman (entrambi hanno incassato circa un miliardo di dollari) e a ‘Inception’, il cui incasso totale di 728,5 milioni di dollari potrebbe essere superato dal nuovo film. 

Robert Oppenheimer è tra le figure più geniali e controverse del XX secolo. Come direttore del laboratorio di Los Alamos, supervisionò l’operazione, riuscita, per battere i nazisti nella corsa allo sviluppo della prima bomba atomica, una svolta destinata ad avere importanti e drammatiche conseguenze sul genere umano e a rendere lo scienziato il padre delle armi nucleari. Un grande organizzatore, carismatico e competente, che paradossalmente fu ‘perseguitato’ fin dall’inizio della sua missione da sospetti di tradimento per le sue simpatie per il comunismo. 

Sulla figura di questo scienziato il cui nome è legato al simbolo di morte per eccellenza, la creazione di un ordigno in grado di distruggere il mondo, sono stati scritti molti libri. Il più importante di tutti, ripubblicato in Italia da Bompiani, è ‘Robert Oppenheimer – L’uomo che inventò la bomba atomica’ (Tascabili Saggistica, pagg. 1216; prezzo: 28 euro), scritto nel 2014 da Ray Monk, professore emerito di filosofia all’Università di Southampton, acclamato autore di ‘Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio’ (Bompiani 1991, Tascabili Bompiani 2000), che gli è valso il John Llewellyn Rhys Prize e il Duff Cooper Prize, e di una biografia di Bertrand Russell in due volumi.

In questo libro monumentale e accuratissimo Ray Monk, scava più profondamente di chiunque altro nelle motivazioni di Oppenheimer e nella sua complessa personalità, attraverso un’indagine sensibile condotta con grande erudizione, che ci restituisce una storia di scoperte, segreti, scelte impossibili e inimmaginabile distruzione.

Un libro nato dalla lettura di ‘Robert Oppenheimer: Letters and Recollections’ di Alice Kimball Smith e Charles Weinerin cui, racconta l’autore, si scopre quanto fosse “un uomo dalle molteplici e affascinanti sfaccettature”, che scriveva poesie e racconti, che avesse una grande cultura e passione per la letteratura francese e “che avesse trovato di così grande ispirazione le scritture hindu da mettersi a imparare il sanscrito allo scopo di leggere nella loro lingua originale”. Per non parlare dei suoi intensi rapporti con i genitori, le ragazze, gli amici e i suoi studenti. 

Monk afferma ancora nella prefazione che il suo obiettivo è quello di produrre “una biografia interna piuttosto che esterna”, che si addentri nella complessità psicologica di Oppenheimer e che leghi più saldamente i suoi contributi alla fisica alla sua vita. Il risultato è un’opera accurata che forse non riesce a entrare così tanto nella psiche dello scienziato come vorrebbe l’autore. I dettagli della fisica di Oppenheimer, benché esposti in modo chiaro, rivelano poco della sua controversa psicologia. Mentre la sua infanzia è ben delineata – figlio privilegiato di ebrei tedeschi non osservanti e prodotto della scuola privata di cultura etica di New York – non apprendiamo quasi nulla del suo matrimonio o del suo rapporto distante con i figli.

Da giovane scienziato, il suo talento e la sua grinta gli consentirono di entrare in una comunità composta dai giganti della fisica del XX secolo – da Niels Bohr a Max Born, da Paul Dirac ad Albert Einstein ed Enrico Fermi – e di giocare un ruolo fondamentale nei laboratori e nelle aule dove il mondo stava per essere cambiato per sempre. Ma quella di Oppenheimer non è stata solo una storia di integrazione, successo scientifico e fama mondiale.

Nella prima parte del libro l’autore descrive la giovinezza di Oppenheimer, figlio di ebrei di origine ebraica tedesca emigrati a New York, ragazzo di eccezionale intelletto, guidato dall’ambizione di superare il suo stato di outsider e di penetrare nel cuore della vita politica e sociale. La seconda parte del libro affronta i temi della seconda guerra mondiale e soprattutto la costruzione della bomba atomica. In questa corposa seconda parte, l’autore si immerge completamente nella vicenda della decisione di sganciare le atomiche sul Giappone, facendo venire fuori il peggio da certi personaggi dell’élite americana, che da liberatori si trasformarono i spietati carnefici.

Monk pone la sua attenzione e quella dei lettori sulla trasformazione vissuta da Robert Oppenheimer, che passò dall’entusiasmo per la ricerca e l’impresa scientifico-bellica al tormento seguito alla scoperta di aver creato un ordigno dall’inaudita potenza distruttiva. Qualunque cosa Oppenheimer abbia fatto per impressionare a fondo il generale di brigata Leslie Groves che lo scelse come direttore del laboratorio della bomba e per motivare gli scienziati di Los Alamos non emerge nel libro.

Anche se appare chiaro che durante un incontro a Berkeley, Oppenheimer colpì il generale per l’ampiezza delle sue conoscenze e, soprattutto, per quella che Groves considerava la sua praticità. Più di ogni altro scienziato con cui il generale aveva parlato, Oppenheimer sembrava capire cosa bisognava fare per passare da teorie astratte ed esperimenti di laboratorio alla realizzazione di una bomba nucleare. Una cosa che tra tutti aveva capito forse il solo generale Groves che difese sempre Oppenheimer dagli attacchi di Fbi, servizi segreti e fanatici anticomunisti che ne chiedevano la sostituzione.

Groves sapeva bene che Oppenheimer era un uomo eccezionale perfette per guidare il laboratorio. Non si trattava solo di un problema di fisica, infatti, bisognava realizzare un’impresa ingegneristica senza precedenti, che doveva progredire mentre si stavano ancora risolvendo i problemi teorici di base.

Oppenheimer riteneva che non ci fosse posto migliore per farlo se non al di fuori delle università, in un laboratorio remoto e centrale. E lo trovò in una zona del New Mexico appena accessibile – un luogo improbabile che Oppenheimer aveva scoperto durante una vacanza a cavallo – che divenne una piccola cittadina abitata dagli scienziati con le loro famiglie a dai militari e non solo un laboratorio nucleare avanzato. Oppenheimer, infatti non si opponeva all’idea che l’operazione fosse supervisionata dai militari e, come osserva Monk, sembrava avere “un senso infallibile di ciò che Groves voleva sentire”.

Ma quando la guerra finì, l’incantesimo si ruppe. Ora il nemico era l’Unione Sovietica e gli appelli di Oppenheimer a evitare la resa dei conti termonucleare condividendo la tecnologia e rinunciando alla bomba all’idrogeno furono usati dai suoi avversari per etichettarlo come un comunista. E si fece appello ai suoi trascorsi in cui risultava simpatizzante del Partito comunista seppure non un suo membro. Si svolsero anche delle ‘udienze di sicurezza’ ma non emerse alcuna prova che Oppenheimer avesse compiuto atti di spionaggio e una commissione per il personale della Commissione per l’Energia Atomica concluse che era un cittadino leale. Ma non era al di sopra di ogni sospetto.

Questo è stato sufficiente per privarlo dell’autorizzazione di sicurezza e per sottoporlo a numerosi processi a fine della guerra. Monk ricorda infine la delusione di Oppenheimer quando capì che gli Usa non avrebbero mai condiviso il segreto della bomba atomica, credendo ingenuamente che i sovietici non sarebbero riusciti a realizzarla. Emblematico l’incontro col presidente Truman al quale disse di sentirsi “le mani sporche di sangue”. Una frase che Truman non capì e che di fatto rappresentò una sorta di congedo dall’esercito parte di quello che il presidente definì “scienziato piagnucoloso”.

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La missione di Castellano per l’armistizio

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AGI – Il commendator Raimondi del Ministero Scambi e valute era partito da Roma il 12 agosto 1943 per un estenuante viaggio in treno verso la Spagna. Era stata scelta la linea ferroviaria e non quella aerea sicuramente molto più rapida per attirare di meno l’attenzione della polizia tedesca.

Quel civile, infatti, è in realtà il generale Giuseppe Castellano, il più giovane dello Stato maggiore generale, in missione segreta e su ordine del capo di stato maggiore Vittorio Ambrosio, a sua volta per incarico di Vittorio Emanuele III.

Castellano ha in tasca una lettera di presentazione rilasciatagli dall’ambasciatore britannico presso la Santa Sede, Godolphin d’Arcy Osborne, da consegnare all’ambasciatore a Madrid, Samuel Hoare.

D’Arcy Osborne non può condurre alcuna trattativa con il governo italiano perché questo esula dal suo mandato diplomatico, e neppure può fare da tramite diretto perché si è accorto che lo spionaggio tedesco di Kappler ha violato i suoi codici.

La missione di Castellano, che si basa solo su quella lettera, è delicata e fragilissima: se fosse accaduto qualcosa sarebbe stato immediatamente sconfessato, perché ufficialmente il governo non sapeva nulla della sua trasferta in un Paese neutrale, per di più con documenti falsi.

Le cose erano state fatte come le circostanze permettevano e con mille cautele, tanto da passar sopra al fatto che il pseudo commendator Raimondi doveva interfacciarsi con gli inglesi e non ne parlava la lingua, e il suo documento diplomatico di accredito valeva solo per la Spagna, quando invece la meta finale era Lisbona, in Portogallo.

La parte più rischiosa gravava dunque sulle sue spalle, poiché buona parte del tragitto ferroviario, in Francia, era su territorio controllato dalla Gestapo in stato di allerta su tutto quello che si muoveva dall’Italia, e perché le sue credenziali erano di scarso rilievo.

A nome di chi parlava? E che potere di negoziazione gli era stato conferito? Castellano era comunque riuscito a raggiungere Madrid senza problemi e qui a contattare subito il console Franco Montanari, parente del Maresciallo Badoglio, che parla perfettamente inglese (la madre è americana), al quale si era pure rivolto il ministro degli Esteri Raffaele Guariglia, guarda caso all’insaputa del generale emissario. I due vengono ricevuti nell’Ambasciata britannica da Hoare: questi è un diplomatico esperto, mostra affabilità, assicura che informerà subito Churchill il quale parlerà direttamente a Roosevelt, visto che i due sono impegnati in un vertice politico a Québec.

Poi Hoare scrive a sua volta una lettera di referenze da mostrare all’ambasciatore a Lisbona, Ronald Hugh Campbell. Gi angloamericani, da questo momento, sanno che l’Italia vuole uscire dalla guerra e che ha mosso il primo passo in tale direzione, per quanto in maniera avventurosa e informale. Questo, però, non cambiava minimamente i loro piani militari che, anzi, venivano intensificati per stringere i tempi della resa.

Il giorno stesso dell’arrivo a Lisbona di Castellano e Montanari, il 16 agosto, la città di Foggia viene violentemente bombardata, e così Viterbo.

Gli Alleati sanno che i bombardamenti sono particolarmente avversati dalla popolazione civile che ne scarica le responsabilità sul governo, e questa è un’ulteriore arma psicologica di pressione.

Il primo contatto degli emissari con Campbell avviene la sera del 19, quando Lisbona è stata raggiunta anche dai plenipotenziari inviati da Roosevelt, ovvero il capo di Stato maggiore delle forze alleate del Mediterraneo, Walter Bedell-Smith, l’incaricato d’Affari degli Stati Uniti, George Kennan, e il capo dell’Intelligence Service delle forze alleate, il generale britannico Kenneth Strong. Si comincia a fare sul serio, in quel rapporto del tutto squilibrato: Castellano non ha nulla su cui contrattare, gli Alleati non flettono dall’accettazione della resa incondizionata.

Così come stanno le cose, il generale deve fare del suo meglio per non essere subito messo alla porta perché non ha alcuna delega di rappresentanza, e formalmente parla per sé.

Per accattivarsi la controparte lancia sul tavolo alcune confidenze e indiscrezioni di carattere politico-militare, pur di mantenere vivo quell’esile filo che deve portare l’Italia all’uscita dalla guerra. A Roma riusciranno però a complicargli la vita inviando persino altre due missioni segrete paradiplomatiche, ovviamente l’una all’insaputa dell’altra, come avremo modo di vedere in seguito

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E’ il giorno dell’ultimo saluto a Michela Murgia

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AGI – E’ il giorno dell’ultimo saluto a Michela Murgia, scrittrice e attivista morta giovedì sera a 51 anni per un carcinoma al rene. Il funerale si terrà a Roma, alla Chiesa degli Artisti di piazza del Popolo, alle 15.30. A maggio l’autrice di Accabadora aveva annunciato di essere malata e di avere avanti a sé pochi mesi. E così è stato.

Murgia ha trascorso l’ultimo periodo lottando per i diritti che le stavano più a cuore: la difesa di una famiglia non tradizionale, parlando della sua “famiglia queer”. A luglio ha sposato il compagno Lorenzo in articulo mortis. Un’unione che lei stessa ha definito necessaria per vedere riconosciuti dei diritti al suo compagno. “Con Michela abbiamo lavorato mesi per una battaglia che è quanto mai urgente: tutelare ogni tipo di famiglia o relazione non tradizionale. Quella che noi chiamiamo ‘famiglia queer’ e che lo Stato non riconosce in alcun modo”, ha spiegato all’AGI, l’avvocata bolognese Cathy La Torre, amica intima di Murgia.

La Torre era stata scelta da Michela Murgia per far parte di quella che l’intellettuale aveva definito la sua “famiglia queer”. “La sua volontà – prosegue La Torre – era politica perché su questo tema si scuotessero le coscienze della politica. Quello che posso affermare con certezza e’ che si sono scosse milioni di coscienze e che noi continueremo a portare avanti, ognuno con le proprie capacità, il suo lascito”.

“La mia capacità – conclude – è e sarà il diritto, il diritto a scegliere con chi passare gli ultimi giorni della propria vita e come tutelare i legami non strettamente tradizionali. Questo abbiamo provato a fare, vivere la nostra queerness e renderla una realtà anche innanzi allo Stato e alle leggi”.

Roberto Saviano, Nicola Lagioia, la casa editrice: il mondo della cultura piange la scomparsa prematura della scrittrice, ma anche dalla politica è arrivato un cordoglio bipartisan. 

“Voglio esprimere sincere condoglianze alla famiglia e agli amici della scrittrice Michela Murgia. Era una donna che combatteva per difendere le sue idee, seppur notoriamente diverse dalle mie, e di questo ho grande rispetto”, ha scritto su Twitter la premier Giorgia Meloni.

Su Instagram Elly Schlein ha ricordato così la scrittrice: “L’amore dentro l’amicizia. L’intreccio delle lotte contro i sistemi oppressivi. I legami che hai intessuto vivono, anche per capire insieme come essere, dopo di te. Ma comunque, sempre, con te. Continueranno le tue parole a cambiare vite. La tua voce a essere cura. Avere cura. E graffio irriverente, contro ogni ipocrisia e discriminazione. #Murgia”.

Matteo Salvini ha pubblicato una foto con su scritto: “Una preghiera”. Mentre Giuseppe Conte l’ha definita “una voce libera”

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Murgia: Barbara Alberti, morta l’unica possibile leader della sinistra

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AGI – “E’ morta l’unica vera possibile leader della sinistra”. E’ lapidario il giudizio di Barbara Alberti, scrittrice, giornalista e sceneggiatrice, ricordando Michela Murgia, scomparsa ieri a 51 anni.

“E aggiungo – spiega all’AGI – Michela è morta ‘vivissima’ e lo sarà sempre. Ha dato battaglia su tutto, ha pensato al dopo di lei senza egoismo, come ha fatto con il suo matrimonio. La sinistra, per me, ha perso l’unico vero leader possibile. Aveva un magnetismo unico con il pubblico, formidabile. Ed è per questo che è stata perseguitata da leader politici in modo orrendo”. Michela Murgia, sottolinea Barbara Alberti, “ha fatto capire che la politica la fanno anche gli intellettuali. A suo modo, ha avuto una funzione politica”.

L’ha definita una combattente: “E lo ripeto – spiega ancora Barbara Alberti – Alcune sue posizioni non le condividevo ma questo non significa non avere apprezzamento. Anzi! E’ stato l’esempio di quello che dovrebbe essere un intellettuale. Qualche volta avrà anche sbagliato ma i grandi, sbagliano. Gli eccessi fanno parte della grandezza, anche le cantonate ma lei, è stata Michela Murgia fino in fondo”.

Era una donna profondamente legata alla sua terra, la Sardegna: “Vedremo emergere tutta la sua originalità espressione dell’unico luogo d’Italia – a mio parere – dove c’è ancora il senso di giustizia sociale: penso allo sciopero dei pastori, dei minatori del Sulcis. Ora – conclude Barbara Alberti – è il momento di celebrarla anche con il sorriso, visto che aveva un umorismo strepitoso”. 

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In Italia dagli Stati Uniti 266 reperti, valgono milioni di euro

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AGI – Stanno tornando. Ufficialmente sono stati restituiti all’Italia l’8 agosto scorso a New York, ma materialmente sbarcano nel Paese di cui costituiscono patrimonio identitario tra poche ore, con un volo speciale.

I carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale hanno ridato con le loro indagini all’Italia, portandoli via dagli Stati Uniti dove erano approdati seguendo il tortuoso iter del commercio dell’arte illegale, 266 reperti archeologici di pregevole valore, che nel mercato mondiale dei beni culturali di provenienza furtiva valgono svariate decine di milioni di euro.

Un patrimonio che abbraccia un arco temporale che va dall’età Villanoviana (IX/VIII sec a.C.), alla civiltà etrusca (VII/IV sec. a.C.), alla Magna Grecia (V/III sec. a.C.) fino all’età romana imperiale (I-II sec d.C.). Opere d’arte e pezzi di storia che hanno varcato l’oceano negli ultimi decenni del secolo scorso, smerciati da trafficanti internazionali senza scrupoli.

La restituzione è l’eccezionale risultato di indagini capillari coordinate dalla magistratura italiana e dalla procura distrettuale di Manhattan (Dao – District Attorney’s Office di New York), con l’assistant district attorney Matthew Bogdanos e i colleghi di Homeland Security Investigations (Hsi), “consolidando una cooperazione di impareggiabile efficacia nel mondo, anche grazie alla costante sinergia”, si legge in una nota, tra i carabinieri dell’Arte e il dicastero della Cultura, guidato dal ministro Gennaro Sangiuliano.

A New York, la restituzione nella sede della procura, tra il procuratore Alvin L. Bragg, il console aggiunto d’Italia a New York, Cesare Bieller, il comandante dei Carabinieri TPC, generale di brigata Vincenzo Molinese, il vice procuratore del Dao, e lo special agent in charge di Hsi, Ivan J. Arvelo.

Tra le opere recuperate, 70 lotti per 145 pezzi totali facenti parte della procedura fallimentare a carico del cittadino inglese Robin Symes, localizzati grazie alle indagini condotte dal Comando Tpc, coordinate dalla procura di Roma, mirate al contrasto del traffico internazionale di beni culturali.

Inchiesta poi sfociata anche in una procedura extragiudiziale e in una causa civile, condotta in stretta collaborazione con il Ministero della Cultura attraverso l’Avvocatura Generale dello Stato, finalizzata alla restituzione dei beni al patrimonio indisponibile dello Stato italiano.

Poi ci sono i 65 manufatti, già in collezione alla Menil Collection Museum di Houston, istituzione che spontaneamente li ha ridati al Ministero della Cultura, dopo che i militari del nucleo specializzato dell’Arma ne hanno dimostrato la provenienza da scavi clandestini in aree archeologiche del territorio italiano e l’esportazione illecita. 

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Cultura

È morta Michela Murgia

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AGI – Michela Murgia è morta oggi per un tumore al rene, malattia che lei stessa aveva rivelato a maggio scorso. “Mi restano pochi mesi di vita” aveva detto, e così è stato.

La sua casa editrice, Mondadori, per cui aveva pubblicato ‘Tre Ciotole’, pubblica un tweet con un messaggio semplice “Ciao Michela” e un cuore rosso su una foto di lei sorridente che sfoglia un libro.

Ciao Michela ❤️ pic.twitter.com/disO8AUNx8

— Mondadori (@Mondadori)
August 10, 2023

Sui social si moltiplicano i messaggi di cordoglio da chi l’aveva apprezzata, ma anche di chi si è trovato sul fronte opposto delle sue battaglie civili. A luglio scorso aveva sposato civilmente il compagno Lorenzo, Terenzi, di sedici anni più giovane. Matrimonio avvenuto qualche settimana fa non senza polemiche in quanto la scrittrice ha sottolineato la necessità di contrarre le nozze per vedere garantiti i diritti al compagno e a quella che lei definiva la ‘famiglia queer’.

Infatti a seguire la scrittrice – una volta trasferitasi nella nuova casa con giardino – ha organizzato una grande festa per festeggiare e celebrare l’unione del gruppo e la condivisione. Alla festa ha partecipato anche Roberto Saviano, considerato facente parte del gruppo. I partecipanti erano tutti vestiti di bianco, come se fossero tutti sposi.

Ma non solo. “Il rito che avremmo voluto non esiste”, aveva detto Michela Murgia, scatenando polemiche intorno all’idea di matrimonio. 

Michela Murgia, nata a Cabras il 3 giugno 1972, di formazione cattolica, prima di iniziare la carriera di scrittrice ha svolto diverse attività, compresa quella di insegnante di religione: significativa tra le altre l’esperienza come venditrice telefonica riversata nel suo primo libro, “Il mondo deve sapere” (2006), sorta di blog sul mondo dei call center e delle multinazionali che ispirerà l’opera teatrale omonima e il fortunato film “Tutta la vita davanti“.

Legatissima alle sue radici, nel 2008 pubblica per Einaudi “Viaggio in Sardegna”, una guida letteraria ai luoghi meno noti dell’isola. Due anni più tardi esce, sempre per Einaudi, “Accabadora”, romanzo che intreccia nell’isola degli anni Cinquanta i temi dell’eutanasia e dell’adozione: con questo vince prima il Premio Dessìe poi il SuperMondello e il Campiello.

Nel 2011 pubblica “Ave Mary”, riflessione sul ruolo della donna e la Chiesa. Tra le opere successive il romanzo “L’incontro” (2012), che analizza i temi della condivisione e delle affinita’; il saggio breve sul femminicidio “L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!” (con Loredana Lipperini, 2013); il romanzo “Chiru'” (2015) e “Futuro interiore” (2016).

Alle regionali sarde del 2014 si presenta con la coalizione Sardegna possibile, che non supera lo sbarramento previsto dalla legge.

Michela Murgia è stata sposata dal 2010 al 2014 con Manuel Persico, informatico bergamasco di dodici anni più giovane.

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Cultura

Addio all’attrice Antonella Lualdi, aveva 92 anni 

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È morta l’attrice Antonella Lualdi, aveva 92 anni. Era ricoverata da tempo vicino a Roma. Nata a Beirut da padre italiano e madre greca, il suo vero nome era Antonietta De Pascale. Nel 1955 aveva sposato l’attore Franco Interlenghi da cui ha avuto le figlie Antonella e Stella. 

Bella e sensuale, considerata alla pari di Lucia Bosè e Gina Lollobrigida, Antonella Lualdi si affermò come attrice soprattutto negli anni 50 e 60. Ha esordito all’età di 19 anni, nel film musicale “Signorinella”. Poi tanti film, e il vero e proprio lancio con la pellicola “Miracolo a Viggiù”.

Aveva recitato per Ettore Scola, con Vittorio Gassmann in “Se permettete parliamo di donne” (1964). Ma è stata sul set anche con Marcello Mastroianni in “Cronache di poveri amanti”, di Lizzani, film che la condurrà al Festival di Cannes nel 1954.Con il marito, Franco Interlenghi recita in “Il più comico spettacolo del mondo” di Mario Mattioli, “Gli innamorati” di Bolognini, “Padri e Figli” di Monicelli,”Giovani Mariti” di Mauro Bolognini.

Lavora, fra agli altri, anche con Geroges Lacombe (A Parini in Vacanza), Michel Gast (Il colore della pelle), e con Giovanni Grimaldi (Un caso di coscienza). Per lei, anche un servizio sulle pagine di Playboy nel 1979 e una esperienza da cantante con il singolo “Il sogno”.

Alberto Lattuada la cerca e la riporta sul set nel 1982 per il film “Una spina nel cuore” così come Paolo Poeti la vuole davanti alla macchina da presa in “Per amore o per amicizia”.

Gli anni 90, la vedono recitare ancora ne “Il commissario Cordier”. Nel 2009 l’ultimo film: “La bella società”. In ultimo una biografia pubblicata nel 2018 dal titolo: “Io Antonella, amata da Franco”. 

 

 

 

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