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Il ritorno di Goldrake

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AGI – Manga Productions e Dynamic Planning hanno annunciato il lancio del teaser ufficiale di “Goldrake U”. La nuova serie anime torna con un nuovo logo e nuove caratteristiche per i protagonisti. L’uscita è prevista per il prossimo anno su canali Tv e piattaforme streaming.

Il teaser ufficiale è stato lanciato in occasione del festival AkibaDaisuki di Tokyo e ha rivelato l’intera troupe cinematografica, che include Go Nagai, il mangaka e creatore di “Goldrake”, il regista Mitsuo Fukuda noto per il suo lavoro su “Mobile Suit Gundam SEED”, e il character designer Yoshiyuki Sadamoto, che ha lavorato a “Neon Genesis Evangelion” e “Summer Wars”.

Lo sceneggiatore è Ichiro Okouchi, meglio conosciuto per il suo lavoro in “Code Geass: Lelouch of the Rebellion”, e la musica è stata composta da Kohei Tanaka, famoso per il suo lavoro in “ONE PIECE” e “Sakura Wars”.

L’anno scorso è stata definita una partnership strategica con Dynamic Planning, che ha concesso a Manga i diritti di licenza per la distribuzione nelle città del Medio Oriente dei prodotti e personaggi della serie “Ufo Robot Goldrake“. Il primo risultato della partnership è stata l’inaugurazione della statua “Goldrake” nella capitale Riyadh, riconosciuta dal Guinness dei primati come la più grande figura metallica di un personaggio immaginario al mondo, con un’altezza di oltre 33 metri.

Conosciuto in Francia come “Goldorak” e in Italia come “Goldrake” e “Ufo Robot”, Grendizer è un grande robot lanciato nel 1975 per salvare il pianeta Fleed e aiutare “Daisuke Amon“, meglio conosciuto come Duke Fleed, a raggiungere la terra sano e salvo e difendere il pianeta e i suoi abitanti. La serie ha avuto un grande successo soprattutto nel mondo arabo, in Francia e in Italia ed è diventata iconica nel mondo dell’animazione e dei manga.

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Addio William Friedkin, il regista dell’Esorcista

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AGI – È morto all’eta’ di 87 anni, a Los Angeles, William Friedkin, regista di “The Exorcist” e ‘The French Connection’. Ad annunciarlo, secondo quanto afferma il sito Hollywood report, è stata la moglie. Friedkin ha fatto parte di una generazione di registi che ha rivoluzionato il modo di fare cinema negli anni 70, realizzando film provocatori, individualisti.

L’esorcista (1973), fu uno dei suoi film più celebri. Già dalle prime sequenze lascia presagire qualcosa di terrificante, con la scena ambientata nel deserto del Medio Oriente, il sito archeologico che ospita una presenza, la colonna sonora con un rumore, una sorta di ronzio simile a quello emesso dalle mosche sempre più forte e minaccioso. Fu un film che ebbe un successo mondiale.

Esponente della Nuova Hollywood, Friedkin è considerato un innovatore del poliziesco e dell’horror. Per questa sua caratteristica fu soprannominato il regista del Male.

Nel 1972 vinse l’Oscar come miglior regista per Il braccio violento della legge. Nel 2013 riceve il Leone d’oro alla carriera alla mostra del cinema di Venezia. Figlio di una infermiera e di un marinaio, visse un’infanzia non proprio agiata e si mantenne con piccoli lavoretti finché, interrotti gli studi, iniziò a lavorare come fattorino per la stazione televisiva di Chicago WGN, per poi imparare il mestiere che lo avrebbe reso famoso.

Girò nel 1962 The People Vs. Paul Crump, documentario sul caso di un uomo di colore condannato a morte e grazie al film la sentenza fu rimessa in discussione. Il film vinse il premio Golden Gate al Festival del cinema di San Francisco. A Los Angeles nel 1965 diresse programmi televisivi incluso un episodio de L’ora di Hitchcock.

Il suo primo film fu Good Times, musical romantico con Cher, poi Quella notte inventarono lo spogliarello (1968), con Britt Ekland fino a ottenere, grazie ai consensi di pubblico e critica, grande successo con Il braccio violento della legge (1971) che lo consacra a Hollywood. Il film vinse cinque premi Premio Oscar.

Subito dopo arriva L’esorcista, film che cambia il genere poliziesco e si vide attribuire l’appellativo di “regista del Male”. Il film è considerato ancora oggi una pietra miliare del cinema horror, con incassi sensazionali e due Premi Oscar (miglior sceneggiatura non originale e miglior sonoro). Si è sposato quattro volte: con Jeanne Moreau, Lesley-Anne Down, Kelly Lange, Sherry Lansing. 

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Mussolini alla Maddalena. “L’umiliazione più grande”

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AGI – Nella notte tra il 6 e il 7 agosto Mussolini viene svegliato dal maresciallo dei carabinieri Osvaldo Antichi. Badoglio aveva impartito l’ordine di trasferimento che era stato portato da Roma a Ponza da due ufficiali dei carabinieri, il maggiore Camillo Meoli e il tenente Elio De Lorenzo.

Vicino al molo una lancia della Regia Marina era in attesa di far salire il prigioniero e i suoi custodi per condurli sul cacciatorpediniere “Pantera” da cui l‘ammiraglio Francesco Maugeri sta coordinando la missione che ha come meta l’isola della Maddalena. La destinazione viene rivelata solo all’alba.

Gli italiani temono, e a ragione, che i tedeschi vogliano mettere le mani su Mussolini, il quale nei suoi appunti scrive: «Questa è la più grande umiliazione che mi possa infliggere. E si può pensare che io possa andarmene in Germania e tentare di riprendere il Governo con l‘appoggio tedesco? Ah, no davvero!».

La scorta verso La Maddalena

E invece accadrà proprio questo dopo la sua liberazione dall’albergo di Campo Imperatore il 12 settembre. Il “Pantera” giunge in vista del porto fortificato di Padule e subito si fa incontro un’imbarcazione con a bordo l‘ammiraglio Bruto Brivonesi, comandante militare marittimo della Sardegna, un capitano dei carabinieri e altri militari, per il trasbordo.

Sul molo ad attendere Mussolini c’è il contrammiraglio Aristide Bona, che lo scorta su un’automobile fino a Villa Webber, luogo per la sua custodia scelto dal colonnello dei carabinieri Antonio Pelaghi, e probabilmente suggerito dall‘ispettore generale Saverio Polito che aveva soggiornato alla Maddalena nella seconda metà del 1940 per il coordinamento dell‘assistenza ai civili sfollati.

La villa era sufficientemente lontana dal centro abitato, nascosta alla vista da un’ampia pineta, di fronte al mare tra Padule e Nido d’Aquila e con la roccia alle spalle, quindi facilmente difendibile in caso di attacco tedesco. L’area è presidiata da un centinaio di carabinieri e soldati agli ordini di Meoli e il servizio di guardia è serrato. All’interno il responsabile è il tenente dei carabinieri Alberto Faiola, comandante della Tenenza di Bracciano, scelto personalmente da Badoglio che l’aveva avuto ai suoi ordini durante la guerra d’Etiopia. La consegna ricevuta è di «impedire con i mezzi a sua disposizione ogni tentativo di fuga e ogni tentativo di ratto del Duce».

L’operazione segreta svelata dagli operai telefonici

Suona inquietante, comunque, che in tanta segretezza sia stata scelta proprio La Maddalena, dove non mancano marinai tedeschi di stanza e di passaggio. Un altro particolare è ancora più preoccupante. Lo rivelerà nel dopoguerra il medico condotto Aldo Chirico, ex podestà, cugino del colonnello dei carabinieri Ettore Chirico vice comandante della caserma Allievi Carabinieri di Roma dove l’ex duce era stato tenuto prigioniero per tre giorni.

Il dottore, peraltro, abitava di fianco a Villa Webber: «Mussolini non giunse inaspettato a La Maddalena: buona parte della cittadinanza era venuta a conoscenza del suo arrivo almeno 24 ore prima, e in modo molto semplice. Gli operai della rete telefonica avevano ricevuto l’ordine dal Comando marina di installare d’urgenza una linea telefonica diretta tra Villa Webber e l’ufficio dell’ammiraglio, senza deviazione alla cabina centrale come avveniva per tutte le linee di piazzaforte».

Intanto a Roma Badoglio tenta di districare la matassa contorta che deve portare all’armistizio con gli angloamericani, ma le vie scelte sono a dir poco confuse. Mentre il marchese Blasco Lanza d’Ajeta creava un contatto a Lisbona, la sera del 5 agosto il capo del governo  aveva inviato in missione a Tangeri il funzionario del ministero degli Esteri Alberto Berio per incontrare il console britannico Alvary Gascoigne, ma in sua assenza aveva dovuto parlare col vice Watkinson.

L’offerta di un’alleanza antitedesca

Ancora una volta, invece di porre sul tavolo delle trattative la resa italiana, unica formula accettabile dagli Alleati, era stata offerta un’alleanza antitedesca e si era sollecitata una diminuzione dei bombardamenti sull’Italia: la stessa formula di d’Ajeta che aveva sconcertato gli inglesi.

C’era però un’aggiunta, quella di intensificare la propaganda contro Badoglio col solo fine di non insospettire Hitler. Gascoigne rientrerà solo il 13 agosto in sede e l’unica replica che potrà offrire sarà quella della capitolazione, come stabilito a gennaio nella conferenza di Casablanca da Churchill e Roosevelt.

Non sa che il 10 agosto gli italiani hanno compiuto un’altra mossa che insospettirà gli Alleati frastornati dal tourbillon di emissari senza credenziali. Il capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio, su sollecitazione di Vittorio Emanuele III attraverso il ministro della Real Casa duca Pietro Acquarone, aveva infatti dato incarico al più giovane generale dello stato maggiore, Giuseppe Castellano, di partire per Lisbona e lì intavolare trattative segretissime per l’armistizio. Un precedente tentativo di coinvolgere l’anziano e stimato politico Vittorio Emanuele Orlando era sfumato di fronte al suo rifiuto.  

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Il tentativo di armistizio, il piano di arresto dei Savoia, Badoglio e la caccia a Mussolini

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AGI – Nell’estate del 1943 il primo abboccamento diretto con gli Alleati per farla finita con una guerra ormai perduta è affidato al marchese Blasco Lanza d’Ajeta, che presta servizio come diplomatico nell’Ambasciata del Regno d’Italia presso il Vaticano. Era stato Vittorio Emanuele III a dare il suo placet affinché fosse inviato il 4 agosto a Lisbona per un contatto con gli inglesi. Nella capitale portoghese aveva mostrato all’ambasciatore britannico Ronald Hugh Campbell una lettera di presentazione firmata da Francis d’Arcy Osborne, ministro plenipotenziario presso la Santa Sede.

Quell’incontro era subito naufragato di fronte all’iniziativa di d’Ajeta di proporre agli inglesi un’alleanza contro la Germania di Hitler, sollecitando uno sbarco nella Francia meridionale oppure nei Balcani in modo tale che la Wehrmacht fosse costretta ad abbandonare l’Italia. Se l’aspetto militare era imbarazzante, quello politico lo era ancor di più. Il marchese si era detto sicuro che il fascismo ormai apparteneva al passato, non c’era alcuna possibilità che si rimanifestasse, e aveva però aggiunto che l’Italia non era immune dalle sirene comuniste.

Gli angloamericani avrebbero quindi dovuto smetterla con i bombardamenti perché a Roma c’era il rischio di una rivoluzione, con la conseguenza che i tedeschi l’avrebbero occupata. Campbell era rimasto a dir poco basito. Non solo d’Ajeta non parlava a nome del governo italiano, cosa che lo avrebbe accreditato per una trattativa, ma il tema del suo intervento era su una specie di alleanza con rovesciamento di fronte, mentre gli angloamericani offrivano solo la resa incondizionata. L’unico risultato di quella missione, oltre l’imbarazzo britannico, era il discredito sul capo del governo Maresciallo Pietro Badoglio e sul capo dello Stato Vittorio Emanuele III.

Sul fronte interno, all’insaputa dei tedeschi Benito Mussolini è tenuto prigioniero sull’isola di Ponza, la sua famiglia è sotto sorveglianza alla Rocca delle Caminate a eccezione del figlio Vittorio che è invece riparato subito in Germania. All’ex Duce vengono fatti recapitare due bauli con biancheria di ricambio, viveri che integrano le scarse razioni della tessera annonaria di cui è stato prontamente dotato, una fotografia del figlio scomparso Bruno e diecimila lire: i contanti sono stati consegnati personalmente dalla moglie Rachele all’ispettore Saverio Pòlito, già dirigente dell‘Ovra e capo della polizia militare del comando supremo, responsabile della custodia del prigioniero; questi in automobile, il 2 agosto, ha compiuto su di lei approcci osceni che gli varranno una condanna nella Rsi che a fine guerra saprà volgere a suo favore come riprova di antifascismo.

A Ponza, comunque, nonostante le stringenti misure di sicurezza, la presenza di Mussolini è di dominio pubblico. Lo spionaggio di Kappler viene allertato dall’intercettazione di una lettera spedita da un carabiniere alla fidanzata dove parla esplicitamente del prigioniero, ma all’indizio non si dà subito seguito perché il Feldmaresciallo Erwin Rommel ha informato Hitler che da fonti attendibili ha saputo che Mussolini si trova in custodia a bordo di una corazzata. Quando la falsa pista viene abbandonata è ormai troppo tardi.

Il 6 agosto Badoglio convoca una riunione segreta alla quale prendono parte il questore Polito, il capo della polizia Carmine Senise e il ministro di Supermarina Raffaele de Courten, per decidere dove trasferire Mussolini, perché Ponza non è più sicura. Hitler nel frattempo, il 5 agosto, ha congelato il Fall Schwarz, ovvero il piano di arresto della famiglia Savoia, di Badoglio e del governo italiano che lui chiama sprezzantemente «la cricca dei traditori»: il Feldmaresciallo Albert Kesselring ne aveva prefissato il 2 agosto l’operatività per il 6 anche se era ormai sfumato l’effetto-sorpresa. Il Führer è totalmente concentrato sul Fall Eiche, che deve invece portare alla liberazione di Mussolini e alla rinascita del fascismo. Nella notte del 6 agosto l’ex Duce viene svegliato all’improvviso e portato via da Ponza. La destinazione, lo si saprà solo all’alba, è l’isola della Maddalena.

La caccia continua. 

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Combattere senza paura e senza speranza

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AGI – “Combattere senza paura e senza speranza” è il titolo delle memorie del generale tedesco Frido von Senger und Etterlin, cattolico praticante, soldato dalla profonda etica cristiana, antinazista dalla prima ora.

Combattere senza speranza e senza paura è anche il manifesto degli insorti dell’eroica e disperata rivolta di Varsavia del I agosto1944. Non c’era infatti alcuna possibilità di sconfiggere le SS nello scenario della guerriglia urbana, ma c’era il coraggio di battersi per la dignità e per il proprio Paese oppresso dal 1939. È questa una delle pagine più controverse della seconda guerra mondiale. L’inopportunità di quella sollevazione venne soppesata anche dal Governo polacco in esilio a Londra, e il generale Władysław Anders era contrario perché intravedeva dal prevedibile fallimento lo smantellamento dell’esercito clandestino che avrebbe dovuto impedire la sovietizzazione della Polonia, con l’Armata Rossa di Stalin giunta davanti alla capitale.

Quel I agosto del 1944, alle ore 17, scattava l’Operazione Burza, ovvero “Tempesta”. Tutto spingeva ormai in quella direzione e il corso della storia non poteva più essere fermato. Il presidente del consiglio dei  ministri del governo polacco in esilio a Londra, Stanisław  Mikołajczyk, dal 30 luglio si trovava a Mosca per un colloquio con Stalin che il dittatore aveva spostato al 3 agosto, avendo già riconosciuto l’Unione dei patrioti polacchi (Zpp) di Bolesław Bierut (futuro presidente della Polonia socialista) e Wanda Wasilewska come rappresentante del popolo polacco.

Il futuro stesso della Polonia è in gioco, poiché Stalin intende appropriarsi di metà del Paese stabilendo la nuova frontiera secondo al Linea Curzon tracciata nel 1919 e superata con la vittoria militare dei polacchi sui bolscevichi nel 1920 come sancito poi dal Trattato di Riga. Quel I agosto il bollettino dell’agenzia di stampa tedesca Deutsche Nachrichten-Büro (Dnb) aveva diffuso la tranquillizzante nota «Varsavia è  calma». I tedeschi avevano mobilitato la popolazione per i lavori forzati a difesa della città ormai minacciata dall’Armata Rossa acquartierata sulla sponda orientale della Vistola. Per la resistenza sarebbe stato un colpo letale, perché i combattenti dell’Armia Krajowa non sarebbero più stati disponibili per quello che aspettavano da anni.

Alle 17 i reparti del colonnello Antoni Chrusćiel (‘Monter’) aprono il fuoco e danno inizio alla rivolta. I vertici dell’AK hanno deciso di tenere impegnati i tedeschi per tutto il tempo in cui Mikołajczyk deve condurre i negoziati, quindi per cinque, sette giorni al massimo: è quanto consentono le scorte di viveri e di munizioni. Oltre 45.000 insorti costituiti in circa 600 compagnie di cinquanta-cento combattenti, uomini e donne, spuntano come funghi  dal tessuto urbano di Varsavia. La Kotwica, l’àncora simbolo dell’AK con la lettera ‘P’ che sormonta la ‘W’, viene dipinta e disegnata dappertutto.

I polacchi portano bracciali biancorossi, sfoggiano stemmi e distintivi con l’aquila bianca sugli elmetti tedeschi, le bandiere polacche sostituiscono quelle del Terzo Reich. Il quartier generale guidato da Tadeusz Bór Komorowski , dalla fabbrica Kammler, il 2 agosto via radio informa gli Alleati che «la battaglia per Varsavia è cominciata». Stalin reagisce dando l’ordine all’Armata Rossa di fermarsi al Quartiere Praga e di non attraversare la Vistola: sarebbero stati i tedeschi a fare il lavoro sporco sul campo di battaglia e a “ripulirlo” dall’Armia Krajowa che i sovietici avevano smantellato ovunque fossero entrati nel territorio polacco con fucilazioni, imprigionamenti e deportazioni. Un copione ormai classico. A Mikołajczyk il dittatore non lascia alcun margine di trattativa, arrivando pure a negare l’insurrezione di Varsavia. Ai polacchi non resta allora che combattere senza speranza e senza paura.

Le SS del generale Erich von dem Bach-Zelewski mostrano il loro volto più feroce, con i ranghi irrobustiti da detenuti e criminali che si macchiano di indicibili stragi di civili, con decine di migliaia di morti. L’AK, stando al Diario della 9ª Armata tedesca, si batteva in modo fanatico e con molta decisione, ma dopo l’iniziale slancio non poteva che perdere continuamente e sanguinosamente terreno. I combattenti resistono a condizioni inenarrabili, senza acqua e cibo, senza medicine.

Stalin ha negato all’aeronautica alleata il permesso di sorvolo e di scalo sui territori presidiati dall’Armata Rossa, e tanto per far capire come la pensa li fa accogliere dal tiro della contraerea. Le missioni partite dagli aeroporti pugliesi hanno perdite altissime e risultati irrisori nel lancio di rifornimenti: un quadrimotore abbattuto per ogni tonnellata di materiale lanciato e il 16% della flotta. A un certo punto, per beffa, Stalin farà effettuare lanci dall’aeronautica sovietica, ma da altezze troppo basse in modo che il carico vada in frantumi, e casse con munizioni di calibro non compatibile con le armi di rivoltosi.

Dopo 63 giorni di lotta disperata, il 2 ottobre, il generale Bór Komorowski firma la resa, avendo ottenuto tutte le garanzie delle convenzioni internazionali. I reparti superstiti, 11.000 soldati (di cui 2.000 donne) sfilano cantando in ordine e armati davanti ai tedeschi, che li riconoscono legittimi combattenti, mentre loro gridano «Lunga vita alla Polonia! Viva la libertà». Il 3 ottobre da Londra il Comitato nazionale polacco diffonde un commovente bollettino: «Non abbiamo ricevuto alcun sostegno effettivo […]. Siamo stati trattati peggio degli alleati di Hitler in Romania, in Italia e in Finlandia». Hitler per vendetta farà evacuare tutta la popolazione da Varsavia e ordinerà di cancellare la città dalla faccia della terra. Quando finalmente arriverà dal Cremlino l’ordine di oltrepassare la Vistola, i soldati sovietici troveranno davanti a loro un mare di macerie al posto dell’elegante capitale d’anteguerra. Per quella rivolta erano morti oltre 200.000 soldati e civili. Finita l’occupazione nazista, per la Polonia iniziava l’era dell’occupazione sovietica    

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Una croce, una foto: l’omaggio di Agira ai canadesi morti nello Sbarco

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AGI – Qualcuno ha la moglie accanto, un altro un figlio in braccio, altri ancora semplicemente il viso senza una ruga: c’è una foto sbiadita e in bianco e nero per ciascuno dei 480 soldati canadesi che riposano nel cimitero militare di Agira, affacciato sullo specchio d’acqua Pozzillo che ricorda vagamente i laghi del Canada: sono giovani e giovanissimi, caduti tra Leonforte, Assoro e Agira, e sono la maggioranza dei 562 Loyal “Eddies” morti 80 anni fa nello sbarco alleato in Sicilia, quella Operazione Husky che nel 1943 diede il via alla sconfitta militare del nazismo.

Tjarco Schuurman, un uomo imponente di quasi due metri, presidente della D-Day Dodgers Foundation, da tre anni li cerca a uno ad uno, contattando le famiglie che, sorprese e felici, hanno tirato fuori dai cassetti gli scatti dimenticati.

E’ nato così “Faces of Agira” (I volti di Agira), progetto che viaggia sui social per dare una memoria a soldati di fatto sconosciuti, e che si lega profondamente al Wrap (Walking for Remembrance & Peace) il “cammino” che un gruppo di canadesi, guidati da Steve Gregory, ha condotto sulle tracce delle truppe alleate nel luglio 1943, da Marzamemi e Pachino, luoghi dello sbarco, ad Adrano. Una toccante commemorazione, al suono delle cornamuse dei Seaforth Highlanders, ha chiuso il Wrap, avviato il 10 luglio a Pachino.

Al cimitero di Agira si sono ritrovati in tanti al tramonto: dopo un primo ricordo, un particolare “saluto al sole” di un militare canadese, nativo pellerossa, è stato letto l’elenco dei caduti: ad ogni nome, una voce, un distino “presente”. C’era anche Tony Loffreda, unico senatore canadese di origine italiana, che ha voluto seguire l’intero “cammino”. “Tjarco Schuurman ha dato loro un viso, noi abbiamo aggiunto un segno della nostra memoria”, ha detto Gregory.

In tre anni, costruendo un’imponente rete di contatti e di volontari anche tra gli abitanti di Assoro e Agira, Schuurman è riuscito ad abbinare 480 foto ai nomi dei caduti, degli oltre 500 militari sepolti in questo cimitero bianco. Quando gli viene chiesto come è stata accolta la sua richiesta dalle famiglie dei caduti, Schuurman risponde che “alcune neanche sapevano che un loro parente era morto in Sicilia, ma hanno comunque cercato le immagini in cassetti e armadi. Mancano ancora una ventina di foto, ma non ci fermiamo”. A Marzamemi sono stati piantati sulla spiaggia di fronte al mare, 130 markers (marcatori), in ricordo di coloro che non sono morti in battaglia, ma sono caduti durante le operazioni dello Sbarco o facevano parte degli equipaggi dei velivoli abbattuti in Sicilia.

Nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, più di 25 mila soldati della 1 Divisione di fanteria e della 1 Brigata corazzata del Corpo di spedizione canadese al comando del Maggior Generale Harry Crerar, sbarcarono tra Marzamemi e Pachino, nella Sicilia orientale. Sole cocente, pochissima acqua potabile, strade polverose: i volontari canadesi sono disorientati ma procedono abbastanza speditamente verso il cuore dell’isola e all’inizio non incontrano resistenza.

“Gli americani marciano verso Palermo e gli inglesi tagliano la costa verso Catania: i canadesi rimangono al centro dove si ritroveranno impegnati nella conquista di cittadine arrampicate sui monti, vere roccaforti tedesche e italiane” ricorda lo storico Alfio Caruso. Il 16 luglio i Loyal Edmonton entrano a Piazza Armerina, poi a Valguarnera, Enna, Assoro, Leonforte, Nissoria e infine Agira: è la battaglia più sanguinosa, migliaia saranno le vittime civili sotto i bombardamenti, e altrettanti i militari dei due schieramenti che restano sul terreno, tra cui un numero altissimo di canadesi, oggi sepolti nel cimitero militare di Agira.

“Mio nonno è stato interprete durante la Seconda guerra mondiale, noi olandesi dobbiamo parecchio al Canada – spiega Tjarco Schuurman -. Da qui sono partito per dare un viso a queste tombe. Vogliamo cambiare il modo in cui si guarda alla guerra: non più grandi eroi o storie conosciute, ma semplici militari, ragazzi che partirono volontari perché credevano nella pace”.

Furono i canadesi a costruire il primo ponte Bailey in Europa sotto il fuoco nemico: lo allestirono in una sola notte, tra il 21 e il 22 luglio 1943, i genieri dei Royal Canadian Engineers per superare la gola Strigilo’ visto che i tedeschi avevano fatto saltare l’unica via d’accesso alla cittadina di Leonforte, nelle campagna di Enna, il ponte sul torrente Petrangelo sulla SS121. Per ricordare questa battaglia e l’altissimo numero di caduti delle diverse bandiere, canadese, italiana e tedesca, proprio a Leonforte è stato inaugurato un monumento che riproduce quel ponte Bailey che permise agli alleati la conquista della cittadina che ospitava la più importante, linea difensiva tedesca.

“Questo monumento – spiega Gregory – per noi è molto importante perchè ci permette di ricordare e lasciare una traccia dei quasi 600 militari canadesi caduti durante l’Operazione Husky”. La battaglia per la presa di Leonforte duro’ tre giorni interi, e vide contrapposte la 2a Brigata canadese con l’artiglieria divisionale, contro elementi della 15a Panzergrenadier – Division tedesca supportati da reparti della 4a Divisione Livorno.

Gli Engineers canadesi cercarono a più riprese di superare il burrone Petrangelo per raggiungere la cittadina, ma finirono sotto il fuoco delle mitragliatrici e dei mortai tedeschi e persero molti uomini: i pochi che riuscirono a risalire la gola e passare, si trovarono coinvolti in combattimenti all’arma bianca, nell’assenza di comunicazioni radio, ed ebbero la peggio, mentre la popolazione di Leonforte (soprattutto donne e bambini) si era rifugiata nella galleria della ferrovia: i morti civili furono 33, la più piccola di 5 anni, il più anziano di 61.

“L’unica possibià fu quella di far intervenire i carri armati che pero’ non potevano superare il vallone: mentre i Loyal Edmonton combattono fuori dall’abitato, i genieri si mettono al lavoro sotto il comando dell’ingegnere capo, tenente colonnello Geoff Walsh e installano il primo ponte Bailey europeo”, spiega lo storico Angelo Plumari. è una struttura in ferro e acciaio a moduli che viene montata ed estesa man mano che viene costruita: non appena una sezione di 3,05 metri di lunghezza è pronta, viene spinta su rulli e fissata alla sezione successiva, soltanto cosi’ riuscirà a sostenere carichi pesanti. Soltanto transitando sul ponte, i carri armati alleati potranno raggiungere e conquistare Leonforte.

I canadesi pagheranno un prezzo alto: 57 morti e 105 feriti, tra i quali anche due Seaforth Highlanders pellerossa, i primi dei 50 volontari delle tribù native del Canada. Ma molti di più furono i caduti italiani e tedeschi: tra questi il sottotenente Luigi Scapuzzi, decorato al Valor militare ed altri sconosciuti che riposano in tombe senza croce. Il ponte Bailey di Leonforte resta il primo di una lunga serie: durante la Seconda Guerra Mondiale solo in Italia furono costruiti più di 3000 ponti Bailey, con una lunghezza totale di 90 km, per sostituire i ponti distrutti dai tedeschi.

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È morto Luca Di Meo, fu Luther Blissett e Wu Ming 3

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AGI – È morto a 59 anni Luca Di Meo, autore del collettivo Luther Blissett e poi Wu Ming 3. Si è spento domenica nel suo appartamento di Bologna dopo una lunga malattia. Quindici anni fa aveva lasciato Wu Ming, che dà notizia della sua scomparsa sul sito web del collettivo.

Nella seconda metà dei Novanta Di Meo fece parte del gruppo che scrisse ‘Q’, il romanzo destinato a segnarne il destino. La sua ultima apparizione in pubblico con gli altri autori risale al 2019 per il ventennale del romanzo. 

Nel dare la notizia della separazione i Wu Ming scrivevano: “Si manifesta all’esterno come un fulmine a ciel sereno (…) Chiarimenti, tentativi, esperimenti, le abbiamo provate tutte. Abbiamo tentato il possibile e anche una fetta d’impossibile per superare gli ostacoli e mantenere il collettivo nella sua formazione usuale, ma ci siam dovuti arrendere (…) Lo abbiamo fatto con un umore non facile da descrivere. È l’umore con cui guadagni l’uscita d’emergenza se il cinema va a fuoco: hai pagato il biglietto, ma pazienza. Il film piaceva a tutti, ma pazienza”.

Lo stesso il tono usato per annunciare la morte dell’ex compagno di scruitture. “Anche oggi, come quindici anni fa, l’umore è difficile da descrivere. Non metteremo in fila aneddoti: la prima volta che lo incontrammo, quel giorno che lui, le ultime parole scambiate… Niente. Non aggiungeremo a queste altre parole. Almeno per un bel pezzo. Quel che abbiamo fatto insieme è stato importante, e rimane. Il resto lo teniamo per noi. Il resto è il rispetto che dobbiamo alla nostra storia comune”.

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Addio a Martin Walser, lo scrittore stufo della colpevolizzazione della Germania

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AGI – Lo scrittore tedesco Martin Walser, figura centrale della letteratura contemporanea in Germania, è morto all’età di 96 anni a Uberlingen, nel sud-ovest del paese, dove risiedeva dalla fine degli anni ’60.

È considerato uno dei maggiori romanzieri tedeschi del dopoguerra alla stregua di Gunter Grass o Heinrich Boll, anche se non ha mai raggiunto la notorietà internazionale di questi ultimi. “Geniale e provocatorio”, secondo la ZDF, fece scandalo alla fine degli anni ’90 quando ammise in un discorso di averne abbastanza della “rappresentazione permanente” del passato nazista, innescando in Germania un enorme dibattito di merito sugli orrori della memoria del Terzo Reich.

In particolare aveva dichiarato di “distogliere lo sguardo” quando i crimini nazisti venivano trasmessi in televisione e denunciava una “strumentalizzazione di Auschwitz per scopi attuali”, una “mazza morale” che sarebbe stata costantemente brandita contro la Germania. Accusato di voler reprimere il passato nazista, si difese ma affermò che una ripetizione costante delle rappresentazioni di questi crimini ne banalizzava l’orrore.

#DasWortzumSonntag spricht Martin #Walser pic.twitter.com/4pPCIJCvOm

— storymakers (@mz_storymakers)
July 28, 2023

Nel 2002, in “Morte di un critico”, attaccò il critico letterario più famoso della Germania, Marcel Reich-Ranicki, ebreo sopravvissuto al ghetto di Varsavia, il che creò un nuovo scandalo nel suo Paese e lo fece sospettare di antisemitismo. Dai documenti dell’archivio centrale del partito nazista risulta che entrò a far parte di quest’ultimo nel gennaio 1944, fu un soldato dell’esercito tedesco.

Nato il 24 marzo 1927 a Wasserburg, Martin Walser eccelleva nella descrizione dei microcosmi piccolo-borghesi, da cui lui stesso proveniva. Dopo la guerra consegui’ il diploma di maturità e poi studiò lettere, storia e filosofia.

Si affermò nel 1955 con una raccolta di racconti, poi, due anni dopo, con il suo primo romanzo e grande successo letterario, “Des Married à Philippsburg”, che lancia la sua lunga e prolifica carriera.

La notizia della morte, anticipata da alcune emittenti televisive, è stata confermata da un mesaggio del presidente della Repubblica Federale, Frank-Walter Steinmeier che parlato “di un grande uomo e uno scrittore di livello mondiale”. “Piangiamo Martin Walser. Non lo dimenticheremo”, ha scritto il presidente tedesco nelle condoglianze rivolte alla vedova dello scrittore, Kathe Walser. “Il suo lavoro abbraccia più di sei decenni e ha segnato in modo decisivo la letteratura tedesca in questo periodo”, ha aggiunto. “In qualità di brillante analista dei mondi interiori umani, non ha mai smesso di interrogarsi per iscritto e di coinvolgere i lettori in questo processo”, ha stimato Steinmeier nelle sue condoglianze.

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Cultura

Il filo che unisce tradizione e futuro. L’arte del cucito di Antonia Murgolo

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AGI – Un arco, una piccola serpentina, qualche scalino in alto, per scoprire la via dell’Anima. È la porta d’accesso al piccolo e arroccato borgo di Forenza, prezioso gioiello del Potentino, dove l’arte del cucito di Antonia Murgolo, rappresentante pugliese della Corporazione delle Arti, l’ha fatta da padrona. Tra telai e punti di ricamo antichi, memorie d’un passato che si perde ogni giorno di più, e imperiosa una preziosa scoperta: uno stendardo del Seicento, della chiesa del Santissimo Sacramento di Modugno, nel Barese, ricamato con tecnica giapponese.

“Nessuno poteva immaginare che in Puglia, in quel tempo, conoscessero quella raffinata arte – spiega Murgolo all’Agi -. Ora, per studiarla, impararla, bisogna andare in Inghilterra e noi non possiamo assolutamente perdere questo patrimonio: è mia volontà poter insegnare ai più giovani tutto ciò che ho imparato”. Cinquantasettenne di Bitonto, città alle porte del capoluogo pugliese, Antonia si è diplomata in un istituto tecnico e poi, soltanto dieci anni fa, ha cominciato a studiare da autodidatta le tecniche perdute di ricamo e cucito.

Sono stata sempre appassionata dell’arte del ricamo e dell’uncinetto, da bambina, da quando vedevo scorrere il filo tra le mani di mia nonna – ci racconta -. Ora per me è diventato un lavoro e nutro il sogno di non far morire questo sapere: vorrei recuperare manufatti che stanno andando perduti, assieme a tecniche, tessuti e sete preziose che si ritrovano soprattutto in paramenti sacri e abiti reali”.

Al lavoro nel suo piccolo laboratorio di Modugno, ci sono anche Mariella Desario, Carmela Veneto e Orsola Murgolo: “Ridiamo valore a un vecchio lavoro, ma soprattutto dignità alle donne – dice soddisfatta Antonia -. Non dobbiamo immaginare il cucito come un’arte per donne dietro la finestra, nei palazzi nobili, ma un’arte che prevede fatica, come montare un telaio, che può causare dolore, e per questo indossiamo ditali, ma ridà fiducia e indipendenza a chi lo pratica. Immaginate se ricominciassero i giovanissimi a farlo? Sarebbe meraviglioso”. 

A febbraio 2024, le creazioni di Antonia, Mariella, Carmela e Orsola voleranno alla volta di Torino: “Porteremo abiti, camicie, giacche, create con il tombolo, filet modano, ma anche gioielli in chiacchierino, considerato un pizzo risalente all’epoca Vittoriana, impreziositi da filati pregiati e pietre”. E conclude speranzosa: “L’arte del cucito deve oltrepassare i confini e tornare viva. L’arte non deve morire”.

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Cultura

Mattarella visita la Chiesa di Santa Maria di Gesù distrutta dall’incendio: “È una ferita” 

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AGI – Era uno scrigno di capolavori artistici e storici la quattrocentesca chiesa di Santa Maria di Gesù a Palermo, distrutta il 25 luglio scorso da uno degli incendi di origine dolosa che nei giorni scorsi hanno colpito la città e la regione. Il danno provocato dalla mano dei piromani è enorme. 

Le fiamme hanno prima aggredito la vegetazione sul costone roccioso del Monte Grifone che domina la località, poi si sono propagate nell’edificio: è crollato il prezioso soffitto ligneo dipinto; distrutti il coro ligneo dei frati e l’organo a canne ivi custodito, la statua lignea quattrocentesca di S. Maria di Gesù, una statua ottocentesca in legno della Vergine Assunta e il relativo abito ricamato, dono della regina Maria Teresa d’Austria.

Gravemente danneggiati anche i manufatti marmorei presenti all’interno della chiesa e i corpi di san Benedetto il Moro (compatrono di Palermo che qui svolse l’ultima parte della sua vita da eremita)  e del beato Matteo d’Agrigento. Una grave perdita spirituale e artistica per l’intera città di Palermo e la Sicilia. 

“Dovevo venire qui, perchè è una ferita” ha detto il presidente della repubblica Sergio Mattarella, che questa mattina si è recato in visita alla struttura, accompagnato dall’arcivescovo di Palermo, monsignor Corrado Lorefici, dal sindaco di Palermo, Roberto Lagalla e dal presidente della regione Sicilia, Renato Schifani.

A Santa Maria del Gesù sono sopravvissute finora usanze antiche, come la coltivazione degli agrumi, arance e limoni, tipici della ex Conca d’Oro. La chiesa è nota, inoltre, per ospitare al suo interno le tombe della famiglia Florio, la dinastia industriale protagonista della Belle Epoque palermitana, raccontata nel best sellers “I leoni di Sicilia” dalla scrittrice trapanese Stefania Auci. Che ora si dispera: “Sembra una chiesa bombardata – ha detto tra le lacrime – che nessuno giri la faccia dall’altra parte: è successo in Sicilia ma può accadere dovunque». 

 

 

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