Fiorello presenta il nuovo servizio di riciclo degli ospiti del programma
AGI – Il gatto selvatico si era rivelato una balena spiaggiata: nella metafora di Winston Churchill tutta la delusione per una delle occasioni perdute dagli anglo-americani per dare un svolta alla Campagna d’Italia incanalata dai tedeschi sulla “Guerra del centimetro” e divenuta per gli Alleati “Tug of war”.
All’alba del 22 gennaio 1944 una flotta di oltre 200 navi appartenenti alle marine da guerra statunitense e britannica, ma anche francese, olandese, greca, polacca, agli ordini del contrammiraglio Frank J. Lowry, effettuava uno sbarco in grande stile a nord e a sud di Anzio. Churchill ne informava in tempo reale Stalin, parlando di «grande attacco contro Roma del quale vi parlai a Teheran», ovvero nella conferenza di fine novembre 1943, e auspicando di potergli fornire a breve buone notizie. Aveva voluto lui quello sbarco, per aggirare le difese tedesche tenacemente impegnate a Montecassino, e per disimpegnarsi dal già previsto sbarco in Normandia.
I tedeschi erano stati messi in preallarme il 18 gennaio, in previsione di un attacco dal mare, il giorno dopo che gli inglesi avevano superato il fiume Garigliano, ma il contrattacco della Wehrmacht aveva spento entusiasmo e velleità sul fronte di Cassino, lungo la Linea Gustav. Lo Stato maggiore del Feldmaresciallo Albert Kesselring temeva che l’utilizzo delle riserve avrebbe scoperto la via di Roma in caso di una temuta operazione anfibia. Il 20 il generale Mark Clark ordinò al generale Geoffrey Keyes di passare il fiume Rapido, ma l’operazione si era risolta in un mezzo disastro per la 37ª divisione americana a causa della decisa reazione tedesca.
Il 21 lo stato d’allarme sulla costa era stato revocato e l’Operazione Shingle scatenata poche ore dopo aveva messo in crisi il quartier generale della Wehrmacht. Le poche batterie costiere e antiaeree erano state ridotte al silenzio e a metà mattinata la 3ª divisione americana aveva già costituito una testa di ponte profonda 5 chilometri, mentre la 1ª inglese, a nord, si estendeva su tre. Tra Anzio e Roma i tedeschi avevano in quel momento appena due battaglioni, un sottilissimo filo che poteva essere spezzato se solo gli americani se ne fossero accorti e avessero osato il colpo del k.o. Kesselring reagì dando subito il via libera alla prevista Operazione Richard, con lo spostamento di unità mobili che dovevano impedire il disastro strategico, bloccando nel frattempo la via dei Colli Albani con truppe corazzate, paracadutisti, carristi e persino personale di terra e unità combattenti della Luftwaffe.
In un giorno appena la testa di ponte alleata si estendeva su 25 km e 11 di profondità. In quel fazzoletto di terreno erano sbarcati 36.000 soldati del 6° corpo d’armata statunitense e un numero esagerato di mezzi a motore, per la maggior parte Jeep, che avevano ingolfato la spiaggia perche non si trovava chi li spostasse rapidamente. Non c’erano, nella prima fase, i carri armati che sarebbero stati invece decisivi per lo sfondamento. Sempre Churchill commenterà: «Quanti uomini teniamo a guidare o a custodire 18.000 autoveicoli in uno spazio tanto ristretto? Dobbiamo essere nettamente superiori quanto ad autisti, ma temo che il nemico abbia più fanteria di noi». E non sbagliava.
Kesselring si era subito portato al fronte e aveva capito che il generale John P. Lucas col suo atteggiamento prudente aveva perso un’incredibile opportunità di far cadere Roma nelle sue mani e far crollare il fronte occidentale della Gustav con l’effetto sorpresa e un intero corpo d’armata ben equipaggiato alle spalle delle forze tedesche. Con l’arrivo in tutta fretta della XIV Armata del generale Ebehard von Mckensen i tedeschi avevano consolidato una linea di difesa che per di più forniva alle artiglierie un comodo e completo campo di tiro. Lucas, fedele agli inviti di Clark, si era limitato ad ammassare uomini e mezzi, memore di quanto accaduto a Salerno quando si era rischiato il rigetto a mare, ed era arrivato a poter contare su 70.000 uomini e poco più di 380 carri armati.
Churchill rimprovererà a Lucas di non essere andato oltre l’occupazione della testa di sbarco con veicoli e rifornimenti, col risultato che «l’occasione preparata con tanti sforzi era perduta per sempre». I tedeschi avevano sigillato la via di Roma ed erano pure in superiorità numerica, per quanto le loro otto divisioni fossero incomplete nei ranghi e non omogenee. Lo sbarco di Anzio-Nettuno (Yellow Beach e X-Ray Beach) poteva essere un punto di svolta e divenne invece per Adolf Hitler l’occasione di dimostrare che la Wehrmacht era ancora una temibile macchina di guerra, tanto da ordinare a Kesselring di contrattaccare. Un successo in Italia avrebbe avuto un effetto ritardante sui preparativi per l’apertura del secondo fronte in Francia.
Il Führer chiese ai suoi soldati di combattere «con odio implacabile». Il 16 febbraio scatenerà il contrattacco sotto la sua diretta supervisione e solo su un fronte limitato, esattamente all’indomani del bombardamento alleato dell’abbazia di Montecassino. Ma il desiderio di vincere in tre giorni non si sarebbe mai realizzato. Il forte appoggio navale e aereo irrobustì infatti la difesa angloamericana e il 20 febbraio l’offensiva tedesca si fermò al prezzo di almeno 5.000 uomini, numero pressoché assimilabile alle perdite alleate.
L’area della testa di ponte era stata saturata dai tedeschi anche con migliaia di manifestini di propaganda su cui spiccava un teschio e la raggelante scritta “Beach-Head. Death’s Head!”. Ma per vincere ci voleva altro: forze e riserve che non c’erano, nonostante il parziale successo di un cuneo nello schieramento alleato di 5 km per 2 contro il quale gli Alleati fecero l’impossibile per evitare che la Wehrmacht raggiungesse la spiaggia. Con i tedeschi combattevano anche italiani dell’esercito repubblichino.
Il 22 febbraio Clark rimuoveva dal comando Lucas, imputandogli il fallimento strategico di sfondamento da parte della 5ª Armata, mentre Kesselring inviava il suo capo di Stato maggiore Siegfried Westphal a Berchtesgaden per spiegare a un furente Hitler i motivi che avevano impedito il successo tedesco: perdite enormi e truppe stremate. La rottura del fronte ci sarebbe stata solo a maggio con la vittoria polacca a Montecassino.
L’ingresso trionfale di Clark a Roma sarebbe passato in secondo piano per la quasi concomitanza del D-Day, lo sbarco in Normandia e l’apertura del secondo fronte. Churchill nelle ore successive all’Operazione Shingle aveva mandato note e telegrammi al generale Harold Alexander e a Maitland Wilson per stigmatizzare l’atteggiamento di Lucas, che sarà però difeso dal suo successore Lucien Truscott: «Senza una solida base per proteggere le spiagge sarebbe stato una follia spingersi verso i Colli Albani», conoscendo anche la risolutezza delle truppe tedesche.
Kesselring dichiarerà nel 1946 che se gli Alleati si fossero allargati sul territorio sarebbero stati fatti a pezzi, perché le forze da sbarco erano all’inizio deboli, solo fanteria e nessun carro armato, ma comunque gli angloamericani commisero l’errore di adottare «una mezza misura» come offensiva. L’immagine suggestiva di Churchill conteneva tutta l’Operazione Shingle: «Avevo sperato di lanciare sulla riva un gatto selvatico e invece ci siamo ritrovati con una balena arenata».
AGI – Un nuovo punto di vista sull’architettura, teso a scoprirne una concezione diversa da quella comunemente legata alla funzionalità abitativa. Questo è ciò che viene suggerito da questa mostra, che nasce con l’obiettivo di indagare il rapporto critico tra abitare e costruire, partendo da alcuni edifici che sono emblematici di questa frattura: “architetture inabitabili” dalla forte carica simbolica, emblemi della città in cui sorgono.
La mostra ne individua alcuni esempi particolarmente significativi, distribuiti su tutto il territorio nazionale, reperendone testimonianza nei materiali dell’Archivio LUCE e altri archivi.
L’esposizione che sarà visitabile dal 24 gennaio al 5 maggio, espone 150 fotografie, video e testi su otto edifici che non sono destinati all’abitare. Tra questi il Gazometro di Via Ostiense, il campanile semisommerso di Curon, il Lingotto di Torino, gli ex Seccatoi di Città di Castello, Torre Branca a Milano, i Palmenti di Petraglia (Potenza), il Memoriale di Brion (Treviso), il Cretto di Gibellina a Trapani.
Alle fotografie storiche si aggiungono opere firmate da fotografi e artisti contemporanei come Gianni Berengo Gardin, Guido Guidi, Marzia Migliora, Mark Power, Sekiya Masaaki, Steve McCurry – oltre ad alcune immagini di Francesco Jodice e di Silvia Camporesi appositamente commissionate per la mostra – e pagine che i più apprezzati scrittori italiani hanno composto per l’occasione.
AGI – La modella, cantante e attrice Samantha Fox, icona sexy degli anni ’80, ha trascorso la notte di venerdì in carcere a Londra dopo essere stata arrestata perchè, ubriaca, si è resa responsabile di rissa su un aereo della British Airways.
Come scrive The Sun, la modella e pop star, oggi 56enne, si trovava su un volo per Monaco di Baviera quando avrebbe avuto una discussione con un altro passeggero. L’aereo era sulla pista pronto per il decollo, ma è stato bloccato a Heathrow dopo che la Fox ha “dato il via alla rissa”, hanno detto le fonti sentire dal tabloid inglese.
I passeggeri sono dovuti scendere e sono stati ospitati in un hotel e hanno ripreso il viaggio il giorno successivo.
La polizia, dopo essere intervenuta sul posto, avrebbe arrestato la cantante ed ex modella prima di rilasciarla su cauzione. La stessa si è detta “profondamente dispiaciuta per l’accaduto e per i disagi causati“, si legge su The Sun, e starebbe aiutando la polizia a chiudere il caso.
La star è stata colpita da una tragedia nel marzo dello scorso anno, quando sua sorella Vanessa è morta improvvisamente in seguito a un attacco di cuore, all’eta’ di 50 anni. Le due sorelle erano molto unite come sui legge anche nella sua autobiografia del 2017, ‘Forever’, in cui Samantha ha raccontato come Vanessa l’abbia salvata quando il padre Pat, alcolizzato, l’ha aggredita.
“Pensavo che mi avrebbe ucciso e l’ho pregato di fermarsi – ha scritto – quando ho cercato di alzarmi mi ha dato un calcio cosi’ forte nello stomaco da farmi venire il fiatone e non si è fermato. Mia sorella Vanessa ha sentito cosa stava succedendo e gli è saltata sulla schiena per togliermelo di dosso”.
È l’ultimo dolore per la modella e pop star Sam – che è apparsa per la prima volta su The Sun 40 anni fa – e arriva otto anni dopo la morte per cancro della sua compagna Myra Stratton, morta nel 2015 dopo aver perso la battaglia contro il cancro, che aveva definito “l’amore della mia vita” e con cui era legata da 16 anni.
Samantha Karen Fox, nata a Londra il 15 aprile 1966, ottenne una grande popolarità negli anni ottanta come modella e poi anche come cantante, soprattutto con i singoli ‘Touch Me’ (I Want Your Body) del 1986, che raggiunse le vette delle classifiche internazionali di Gran Bretagna, Stati Uniti, Svezia e Australia, e ‘Nothing’s Gonna Stop Me Now’ del 1987. La sua immensa popolarità in quegli anni deriva pero’ più dal suo fisico prorompente che dalle sue doti canore. Nel 1983, infatti, fu proprio The Sun a lanciarla come modella della storica ‘Page 3’, che mostrava belle ragazze in topless.
E il suo topless era davvero uno spettacolo (misure: 91-67-89) al punto che, come ha raccontato qualche anno fa la stessa Fox, “il mio agente mi consiglio’ di assicurare i miei seni per 500mila sterline l’uno…”. Quel servizio fotografico bollente fu il trampolino di lancio verso un mondo “dorato” fatto di sontuose feste organizzate da vip e celebrità. La modella fu la prima ragazza a firmare con The Sun un contratto esclusivo quadriennale, che significava posare per qualsiasi tipo di servizio fotografico.
Samantha divenne talmente popolare che doveva andare in giro con le guardie del corpo per non essere presa d’assalto ed erano poche le case degli adolescenti di tutto il mondo (anche in Italia) in cui mancasse un poster ad alto tasso sexy di Samantha Fox.
Una popolarità che l’accompagno’ anche nella sua ‘seconda vita’: Nel 1986 si ritiro’ dal mondo della moda e inizio’ la sua carriera musicale grazie all’aiuto di Freddie Mercury, che, durante una festa ai Kensington Roof Gardens di Londra, dopo un concerto dei Queen a Wembley la fece salire sul palco con lui per cantare in duetto ‘Tutti Frutti’. Da li’ inizio’ la carriera di cantante e arrivo’ il successo globale con oltre 30 milioni di dischi venduti.
AGI – È Paola Cortellesi, dominatrice della stagione cinematografica con il suo ‘C’è ancora domani’, la vincitrice del SuperCiak d’oro 2023 del Cinema italiano, il premio simbolo dei Ciak d’oro del pubblico, giunti alla 38esima edizione.
Il SuperCiak d’oro le è stato assegnato per il soggetto, la sceneggiatura, l’interpretazione, la regia, che per lei è anche un esordio, di un film che “ha saputo coinvolgere e stupire, affascinare e far riflettere, rilanciando il nostro cinema grazie agli oltre cinque milioni di spettatori raccolti – primo incasso del 2023 nel nostro Paese – e andando oltre la pura fruizione per divenire un tema di discussione e condivisione grazie alla capacità di illuminare con originalità, misura, creatività, che in alcuni momenti diventa poesia, un tema chiave della convivenza civile come i rapporti tra i generi e la violenza domestica”.
“C’è ancora domani – si legge ancora nelle motivazioni del premio – unisce originalità di scrittura a una regia matura, innovativa, e a intuizioni artistiche e prove di recitazione di livello assoluto, evidenziando la straordinaria levatura e sensibilità creativa di Paola Cortellesi”.
A Matteo Garrone è andato il Ciak d’oro come ‘Personaggio internazionale dell’anno’ del Cinema italiano “per essere riuscito con ‘Io capitano’ – un film straordinario per linguaggio, storia, tematica, codici visivi, affidato a due sconosciuti esordienti africani nel ruolo di protagonisti e su uno dei temi sensibili e divisivi del dibattito politico e culturale non solo dell’Occidente – a ottenere tre grandi risultati: il primo è un plauso unanime e un forte successo di pubblico in tutto il mondo, fino alla nomination ai Golden Globes, oltre che il Leone a Venezia per la regia e la nomination per Io capitano come rappresentante del nostro cinema nella corsa agli Oscar; il secondo è un grande rilancio per la percezione internazionale della capacità del nostro Paese di creare arte cinematografica innovativa e originale; il terzo (e più importante): aver contribuito a un dibattito lacerante – e spesso mortificante per gli argomenti proposti – su uno dei grandi temi del nostro tempo, offrendo un punto di vista di verità in grado di aiutare la riflessione, ricordando l’importanza che sempre devono avere i principi di umanità e civiltà”.
AGI – Le autorità statunitensi hanno annunciato che due disegni del valore di 2,5 milioni di dollari rubati dal regime nazista ed esposti nei musei americani saranno restituiti ai parenti di Fritz Grunbaum, un cabarettista ebreo austriaco ucciso nell’Olocausto. Questa decisione segue la restituzione, avvenuta lo scorso anno, di sette opere d’arte rubate a Grunbaum nel 1938 e vendute dai nazisti per finanziare la loro macchina da guerra.
La “Ragazza con i capelli neri” era conservata dall’Allen Museum of Art dell’Oberlin College ed è valutata circa 1,5 milioni di dollari, mentre il “Ritratto di uomo” era nella collezione del Carnegie Museum of Art ed è valutato circa 1 milione di dollari. Entrambi sono opera di Egon Schiele, un artista espressionista austriaco.
“Questa è una vittoria per la giustizia e per la memoria di un artista coraggioso, collezionista d’arte e oppositore del fascismo”, ha dichiarato Timothy Reif, giudice e parente di Grunbaum, morto nel campo di concentramento di Dachau.
“Come eredi di Fritz Grunbaum, siamo gratificati dal fatto che quest’uomo, che ha combattuto per ciò che era giusto nel suo tempo, continui a rendere il mondo più giusto decenni dopo la sua tragica morte”. Oltre ai sette pezzi restituiti l’anno scorso e ai due più recenti, un pezzo è stato consegnato da un collezionista direttamente alla famiglia.
“Il fatto che siamo riusciti a restituire dieci opere che erano state saccheggiate dai nazisti testimonia la tenacia con cui i suoi parenti hanno cercato di garantire che queste bellissime opere d’arte potessero finalmente tornare a casa”, ha dichiarato il procuratore distrettuale di Manhattan Alvin Bragg. Grunbaum, che era anche un collezionista d’arte e critico del regime nazista, possedeva centinaia di opere d’arte, tra cui più di 80 di Schiele.
Le opere di Schiele, considerate “degenerate” dai nazisti, furono in gran parte messe all’asta o vendute all’estero. Arrestato dai nazisti nel 1938, Grunbaum fu costretto a firmare la sua procura alla moglie, che fu poi costretta a consegnare l’intera collezione di famiglia prima di essere deportata in un altro campo di concentramento, nell’attuale Bielorussia.
AGI – Nuova luce su un gioiello storico e artistico nel centro di Piazza Navona a Roma: dopo aver attraversato quasi venti secoli di storia la Cripta di Sant’Agnese in Agone, recentemente restaurata, è stata protagonista di un nuovo progetto di illuminazione artistica e architettonica che, a ridosso del 21 gennaio, giorno in cui si celebra la Santa, restituisce alla Cripta la sua atmosfera intima originaria.
Donato da Webuild, multinazionale italiana nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria civile, il progetto d’illuminazione, ideato dalla società Fabertechnica sotto la guida della Soprintendenza Speciale di Roma, punta a valorizzare le caratteristiche spaziali, architettoniche e artistiche della cripta cimiteriale costruita in uno dei luoghi di culto più visitati di Roma, in Piazza Navona, nel posto in cui, secondo la tradizione cristiana, la giovane Agnese subì il martirio, durante le persecuzioni di Diocleziano.
L’iniziativa, ha permesso di restituire alla Cripta la sua atmosfera intima e suggestiva, rispettosa della storia del martirio della Santa grazie a un complesso gioco di luci e ombre.
La Chiesa di Sant’Agnese in Agone, imponente e ricca di storia, è incastonata tra le aule e i fornici dello Stadio di Domiziano (86 d.C), e sorge sul luogo in cui, secondo la tradizione, nel 305 d.C. Agnese, una bella tredicenne romana, subì il martirio durante le persecuzioni dello stesso imperatore. All’interno della Chiesa sovrastante, un capolavoro indiscutibile del Barocco romano ultimato da Francesco Borromini (tra il 1653 e il 1657) per dono di san Pio X, è custodita la testa della martire, che aveva fatto voto di appartenere solamente a Cristo, suo sposo.
La tutela delle opere presenti è assicurata attraverso l‘impiego di Led, sorgenti prive di emissioni UV e a bassa emissione di calore, nel rispetto delle normative vigenti in materia di sicurezza per gli utenti e conservazione delle superfici affrescate.
La donazione, spiega una nota, rientra nell’agenda cultura del gruppo, un insieme di progetti culturali promossi e organizzati da Webuild, dopo l’iniziativa “Superbarocco” nell’ambito della quale Webuild, lo scorso anno, ha organizzato un concerto-evento proprio nella Chiesa a Piazza Navona.
Un’idea tumultuosa è quella celebrata nella Chiesa barocca di Sant’Agnese in Agone. La scopriamo in una nuova tappa del percorso con lo storico d’arte #ClaudioStrinati. Guarda il video: https://t.co/SX087N2Ss3#Webuild #Webuildgroup #agendacultura #Superbarocco #baroccoinscena pic.twitter.com/2Y77XonMWp
— Webuild (@Webuild_Group)
May 18, 2022
La chiesa di Sant’Agnese in Agone (perché sorge sopra la pianta di quello che anticamente era uno stadio per combattimenti e competizioni atletiche) è un prezioso scrigno dove storia del Cristianesimo e storia dell’arte si incrociano e creano un tesoro d’importanza architettonica, pittorica oltre che religiosa unico nel suo genere.
La cripta è peraltro l’unica parte superstite della costruzione originale, luogo di culto dei fedeli a partire dal VII secolo. Vi si accede dall’omonima cappella, attraverso la scala ai sotterranei, alla destra dell’Altare. Un ambiente che ha sempre subito gli effetti aggressivi dell’umidità di risalita, causata dall’idrografia del sottosuolo della città tanto che già nel 1653 il Borromini, subentrato nella direzione dei lavori, dovette finalizzare un primo risanamento degli ambienti compromessi dall’umidità.
Vittima di frequenti allagamenti, la cripta fu restaurata nuovamente nel 1885. Dopo molti altri interventi successivi ma non risolutori, nel 2017 è stato avviato con successo un nuovo progetto di restauro focalizzato anzitutto sul problema dell’umidità, priorità da affrontare prima di qualsiasi altro intervento di ripristino. Un risultato che è stato finalmente raggiunto nel 2020 grazie all’installazione di tecnologie avanzate di deumidificazione.
La realizzazione del nuovo impianto d’illuminazione, dopo gli imponenti restauri terminati nel 2022, è l’ultima sfida vinta dal team di esperti per far brillare la cripta in tutto il suo originario splendore.
AGI – A 100 anni dalla sua morte, il 21 gennaio 1924, il fantasma di Lenin continua ad aleggiare sulla Russia e spaventa persino Vladimir Putin. Ne è convinto Gian Piero Piretto, già docente di cultura russa alla Statale di Milano, che alla morte e alle esequie del padre della Rivoluzione d’Ottobre, ha dedicato uno dei primi capitoli del suo recente saggio “L’ultimo spettacolo” (Raffaello Cortina Editore), dedicato ai funerali sovietici che hanno fatto la Storia.
“Putin già da diversi anni ha segnalato disagio nei confronti della figura di Vladimir Ilich Lenin e della stessa Rivoluzione del 1917″, ricorda Piretto, portando come ultimo esempio la parata del V-Day del 9 maggio scorso sulla Piazza Rossa, quando il mausoleo dove è esposta la salma imbalsamata di Lenin, è stato nascosto da un’impalcatura dipinta con i colori della bandiera russa e le date della guerra contro il nazismo. Putin “fa finta che lì sotto non ci sia niente, come se decenni di storia e iconografie non avessero lasciato nella memoria collettiva dei russi ben chiara l’immagine del mausoleo di Lenin!”.
Concentrato sulla riabilitazione di Stalin, per proporre la Russia di oggi come erede diretta di chi sconfisse il nazismo in Europa, Putin guarda a Lenin non come uno statista ma come un rivoluzionario. Lo ha ammesso lo stesso leader del Cremlino, che gli imputa addirittura l’attuale crisi con l’Ucraina per il fatto di aver spartito in modo sbagliato i territori del vasto impero sovietico e aver concesso troppa libertà ai gruppi etnici.
Nonostante le critiche aperte e i tentativi di far scivolare nel dimenticatoio l’eredità di Lenin, Putin non ha mai osato toccare il “cadavere vivente” sulla Piazza Rossa, di cui la Chiesa ortodossa e il 57% dei russi – secondo i sondaggi – chiedono la sepoltura. “Il fantasma di Lenin esiste”, dichiara Piretto, “anche se il presidente russo fa di tutto per farlo dimenticare, nessuno ha il coraggio di prendersi la responsabilità di fronte al mondo, non solo ai russi, di rimuoverlo dal mausoleo”. A quel punto, fa notare, “bisognerebbe smantellare tutta la necropoli che si trova alle sue spalle, sotto le mura del Cremlino, dove è sepolto anche Stalin. È una responsabilità tale che fa paura anche al coraggiosissimo Putin”.
Con molteplici rimandi iconografici e bibliografici, frutto di un’approfondita ricerca, nel suo saggio Piretto punta l’attenzione sul senso di sconforto e spaesamento che colse tutto il Paese alla notizia della morte di Lenin e sull’immediata operazione fatta dagli ideologi del tempo di santificare il Vladimir Ilich. “L’Unione Sovietica era nata da un paio d’anni”, spiega Piretto, “era uno Stato ancora molto giovane e non poteva permettersi di perdere il suo padre fondatore. Lenin era, in realtà, già morto: una serie di ictus lo aveva relegato alla residenza di Gorki, nella periferia moscovita, ma idealmente continuava ancora a esistere. “Nel momento, in cui si sa della sua scomparsa il Paese crolla nella disperazione ed è immediata la reazione per costruire la sua immortalità”, prosegue, “Lenin corpo umano viene a mancare ma Ilich, il suo patronimico, diventa una specie di divinità che continua a vivere insieme alla sua causa”.
La morte di Stalin, che guidò l’Urss dal 1922 al 1953, ha invece visto il Paese attanagliato dalla commozione. “Nessuno credeva che Stalin potesse morire: Lenin era un essere umano divinizzato post mortem, ma con Stalin era come se fosse morto Dio. Da qui l’incredulità e la disperazione, dalle testimonianze del tempo emerge che nessuno riesce a trattenere le lacrime”.
Di questi riti di massa che furono i funerali dei leader sovietici, la Russia di Putin rispolvera quello che Piretto definisce “il kitsch totalitario” nelle celebrazioni pubbliche del potere: in una sorta di “operetta”, conclude Piretto, “si ripescano quegli aspetti più oleografici e più presenti nella memoria collettiva, dai costumi alle canzoni, la musica e i balli, puntando su emozioni facili da condividere da cui ogni sottotesto traumatico di quell’epoca viene cancellato per far piazza pulita della problematicità e rimandare l’immagine di un bel mondo tipo Disneyland, in cui tutti sorridono e le parole d’ordine sono ottimismo e stabilità, gli slogan del putinismo”.