AGI – “I media tendono a trascurare il tema del lavoro, dei salari e del carovita. Benché il lavoro sia l’ansia quotidiana di chi lo ha, per non perderlo, e di chi lo cerca per poter avere una vita degna di essere vissuta”. Il grande merito de ‘Il lavoro che c’è e il reddito di cittadinanza’, scritto da Patrizia Baratto e Roberto Giuliano, (Edizione Ponte Sisto), è quello di affrontare in modo innovativo questo argomento ponendosi domande e avanzando soluzioni possibili. Il testo si concentra sul terreno macroeconomico ma non solo. Non perde mai di vista le persone.
La prima parte propone un’analisi delle ragioni e delle motivazioni dei cittadini che si sono rivolti ai centri per il lavoro, valuta le loro aspettative, i loro dubbi e la loro storia lavorativa. Nella seconda parte del libro si affrontano gli strumenti ad oggi disponibili per supportare le politiche attive per il lavoro, ma anche una analisi sul loro funzionamento mettendone in risalto le criticità.
Il nodo delle politiche attive
Gli autori evidenziano il fallimento del Reddito di Cittadinanza nell’ottica del suo fine, ma con obiettività riconoscono che se non ci fosse stato il RdC la pandemia sarebbe stato un periodo ancora più drammatico per tante famiglie italiane.
Patrizia Baratto e Roberto Giuliano individuano la mancanza di politiche attive per il lavoro nella disarticolazione tra stato, imprese ed enti formativi. L’assunto dei due autori è che non si può percepire un reddito assistenziale senza svolgere una funzione formativa, un tirocinio o un lavoro socialmente utile. Qualsiasi forma di supporto al reddito deve essere correlata ad un’attività, sia essa formativa o sociale, inoltre si deve creare una sinergia tra il mondo delle imprese e gli enti formativi per favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta, coinvolgendo tutte le istituzioni competenti.
Sull’inflazione, gli autori rilanciano il modello della concertazione già usata dal governo Craxi nel 1984, con le dovute modifiche, considerati la situazione e il ciclo economico differenti. Dicono sì al salario minimo ma avvertono: da solo avrebbe la funzione di aumentare l’inflazione e dunque diminuire il potere d’acquisto dei salari che rimane la priorità per un governo riformista.