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Cultura

L’isola degli arrusi. Quando il fascismo confinava i gay

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AGI – Dopo Bologna, Roma, Napoli, Bergamo, Reggio Emilia, Mantova, ma anche Montreal e altre città in Germania, in Olanda e presto in Svizzera, la mostra “L’isola degli arrusi” della fotografa piacentina Luana Rigolli, romana d’adozione, è aperta a Cefalù al Caffe letterario Galleria fino all’8 ottobre, data di cui è stata già decisa la proroga di venti giorni per l’alto interesse suscitato.

Cefalù ospita una parte del repertorio fotografico che l’artista ha raccolto in un omonimo libro autoprodotto sul confino nelle isole Tremiti di quarantacinque omosessuali tutti catanesi che nel 1939, per via dell’accanita repressione omofoba scatenata dal questore del tempo, furono isolati per motivi politici, in realtà per ragioni legate all’imperante credo fascista della “difesa della razza”.

I fatti sono stati rievocati una prima volta dalla stessa galleria d’arte cefaludese di Giuseppe Provenza in occasione della Giornata della memoria nel 2021, quando a motivo della pandemia si ebbe solo una diretta streaming che prese spunto dal libro “La città e l’isola” (uscito nel 2006 da Donzelli e ripubblicato l’anno scorso) di Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti che ricostruiscono la vicenda ancora oggi poco conosciuta. L’artista palermitana Pupi Fuschi partecipò all’evento disegnando in presa diretta alcuni dei volti dei confinati.

“A luglio dello stesso anno – dice all’AGI Provenza, titolare della galleria – contattammo la fotografa Luana Rigolli che aveva realizzato un gran lavoro sul caso e abbiamo allestito una mostra di foto, “Fino al confino”, con un vernissage costituito da una performance del puparo Angelo Sicilia che ha rappresentato il momento in cui il questore chiama per nome uno per uno gli omosessuali destinati all‘isola di San Domino alle Tremiti. Dopo che la Rigolli si è impegnata nell’autoproduzione del suo libro, abbiamo deciso una nuova mostra, aperta il 16 settembre scorso e di tale interesse che tutte le sue copie sono andate vendute”.

La fotografa quarantenne di madre siciliana si è decisa a finanziare interamente da se’ la propria opera, costata undicimila euro, dopo che per due anni ha provato a vendere le foto a riviste italiane senza avere nemmeno una risposta. “Nel sospetto – dice all’AGI – che nemmeno gli editori mi avrebbero risposto, mi sono decisa a fare tutto da sola stampando quattrocento copie. Per fortuna all’estero, dove l’interesse su questa pagina di storia fascista è molto più forte, le cose sono andate diversamente, tanto che in Canada ho venduto le foto a tre riviste e ho avuto finanziata una mostra che se adesso sta girando in Italia e perché hanno fatto tutto loro, altrimenti sarebbe difficile anche fare mostre nel nostro Paese”.

Luana Rigolli, fotografa viaggiatrice attratta dai luoghi remoti e insoliti, è arrivata a conoscere il caso degli “arrusi” (secondo l’espressione catanese con chi vengono chiamati i gay) leggendo il libro di Giartosio e Goretti. “Mi ci sono dedicata con impegno, andando all’Archivio centrale di Stato e fotografando tutti i volti presi dalle schede biografiche, le lettere di richiesta di grazia dei confinati al re e al ministro, i verbali di polizia a loro carico. Sono stata alle Tremiti dove ho fotografato quanto rimane dei luoghi del confino e quindi a Catania nei posti di ritrovo dei gay, nella sala da ballo per soli uomini che oggi e un centro sommesse”.

Il libro, la cui copertina riproduce cromaticamente e graficamente la carta di permanenza dei confinati, integra quello di Giartosio e Goretti e si affida un titolo, “L’isola degli arrusi”, che sottende non la Sicilia ma le Tremiti. Dove, secondo alcune cronache, gli omosessuali catanesi poterono muoversi liberi senza più doversi nascondere.

Quando la fortezza di San Domino servì al governo per recludervi i veri prigionieri politici, gli omosessuali furono rimandati a casa ed è stato a Catania che gli autori di “La città e l’isola” hanno rintracciato due di loro e raccolto le loro testimonianze e confidenze. La mostra di Rigolli comprende trenta grandi foto incorniciate di luoghi, provvedimenti giudiziari, lettere, e quarantacinque riproduzioni dei volti dei confinati come risultavano nei lor fascicoli. A Cefalù, per problemi di spazi, il corredo è più ridotto, ma assicura una presa di conoscenza consapevole ed esauriente dei fatti raccontati per immagini. “Non si può rimanere passivi – dice Giuseppe Provenza – di fronte a vicende che hanno segnato il nostro tempo e che sono rimaste pressoché inesplorate. Molta di questa gente, anche donne omosessuali, finiva nei manicomi perché considerata non sana geneticamente. La mostra serve a tenere viva non solo la memoria ma anche l’attenzione storica”.

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