AGI – Non è molto noto il fatto che sotto il re Idriss, il regno di Libia non si distinguesse per una qualche forma di persecuzione nei confronti della comunità ebraica libica. E’ certamente almeno impensabile che di vera persecuzione, particolarmente accanita, si macchiassero mai i libici, prima abituati a una relativa tranquillità sotto la dinastia regnante.
Il re Idriss era riuscito in qualche modo ad assicurare in Libia una certa convivenza tra la popolazione araba, ebraica, italiana (e c’era anche la piu grande base americana del mediterraneo). Gli ebrei erano là da quasi duemila anni. Il fuoco covava sotto la cenere e quando Idriss malato ha dovuto lasciare, allo scoppio della guerra dei Sei giorni, questo braciere esplode in Libia ma anche in altri paesi del nordafrica.
In tutto dovettero lasciare i loro paesi oltre 900 mila ebrei. La Guerra dei Sei giorni nel 1967, destabilizzando poi il Paese, scatenò nella Libia una vera caccia agli ebrei della numerosa comunità presente nel paese africano dove migliaia di persone furono costrette all’improvviso a fuggire in fretta con una valigia e poche monete con sé, abbandonando ogni cosa in quello che consideravano da sempre il loro paese, provocando una nuova diaspora come fu per la Spagna nel XVI secolo.
Cacciati senza pietà da casa, gli ebrei libici cercarono un rifugio in una terra scavandosi uno spazio problematico e foriero di nuovi conflitti. Raffaele Genah, giornalista nato in Libia appartenente da sempre a quella comunità, in un libro agile e vivo, edito da Solferino e dal titolo “Notturno libico”- La persecuzione degli ebrei di Libia”, dipinge un quadro realistico dei giorni della persecuzione sotto la rivoluzione degli ufficiali nasseriani guidati dal colonnello Gheddafi (rimasto al potere per 42 anni fino al 20 ottobre del 2011 quando fu brutalmente ucciso dai ribelli a Sirte).
Oltre alla breve e sintetica sintesi degli avvenimenti che sconvolsero la pacifica vita di una intera comunità, il libro, narra le vicende drammatiche di una coppia, un uomo e una donna, Giulio e Jasmine, che ci raccontano a due voci le loro storie.
L’uno, arrestato senza accuse di alcun genere e chiuso in carcere per oltre quattro anni, l’altra la moglie che dedica la sua vita, attraverso le mille trappole di una giungla di rapporti e relazioni, con l’unico scopo di liberare il marito privo di qualsiasi accusa e del tutto innocente perfino nell’ambiente.
La descrizione dei mille modi che Giulio adotta per sopravvivere grazie a un carattere di acciaio, alla sua ferma volontà di non cedere e soprattutto alla coraggiosa e determinata Jasmine, moglie innamorata, che non lascia di nulla di intentato per riuscire a trovare la chiave che sciolga le catene dello sfortunato ma determinato e tenace marito. Il lettore è quasi trascinato a seguire le alterne vicende della coppia con la stessa ansia e la stessa partecipazione emotiva di una storia, intensamente vissuta, condotta a lieto fine.
Ma è proprio il lieto fine che conferisce a questo libro un’aura di speranza nella forza che può dispiegare la volontà, l’intelligenza e la reciproca fiducia di due persone che si amano e vogliono combattere fino in fondo la lotta per la propria vita.
“Come molti della mia comunità conoscevo per grandi linee la storia di Giulio – ha detto all’AGI Genah – un giovane ingegnere finito, solo perché ebreo, nelle carceri di Gheddafi, dove fu rinchiuso per quasi quattro anni e mezzo. Non sapevo invece niente della battaglia della sua straordinaria moglie Jasmine, che per quasi tre anni non sa nemmeno dove abbiano portato il padre dei loro due bambini (uno di due anni, l’altra di pochi mesi) e nemmeno se sia ancora vivo”.
“Ma si batte come una leonessa – ha spiegato il giornalista -, smuove mari e monti, si rivolge a diverse organizzazioni internazionali, al Vaticano, ad ambasciatori e ministri di diversi paesi e alla fine torna completamente sola, con estremo coraggio, a Tripoli e riesce a far liberare il marito. Ecco, questa parte della storia mi mancava: perciò ho deciso di intrecciare i loro racconti, alternando le voci in un’unica trama, e ne è uscito quello che considero un vero reportage sugli albori della rivoluzione di Gheddafi, nel racconto di due protagonisti che vedono la storia scorrere da due diversi punti di osservazione”.
Un lavoro coinvolgente: “Molto – ha affermato l’autore -. Quella storia appartiene ad un’intera comunità di cui mi sento parte e che non può essere cancellata come hanno provato a fare, edificando perfino palazzi, strade e supermercati sulle tombe dei nostri morti proprio perché non restasse alcuna traccia di una presenza bimillenaria. Questa storia non risponde solo ad un dovere di memoria, ma trova una tragica attualità nei fatti di oggi”.
E questo perchè, ha spiegato ancora Genah, “quello che è accaduto il 7 ottobre scorso in Israele richiama, in proporzioni ovviamente ben maggiori, i pogrom avvenuti in Libia nel ‘45 e nel ‘48 con le stesse crudeltà, le violenze sulle donne a cui furono perfino strappati i feti che portavano in grembo. E poi in parte anche nel 67 con gli assalti alle case degli ebrei, i roghi dei loro negozi e delle sinagoghe. Due intere famiglie – donne, bambini, anziani – sterminate e i loro corpi bruciati. I morti e le persecuzioni. Scene che si sono ripetute in altri paesi del Nordafrica da cui silenziosamente se ne sono dovute andare 900mila persone. E come dice un vecchio adagio: ‘gli ebrei sono come i canarini nelle miniere: quando non se ne vedono più in giro vuol dire che l’aria è ormai irrespirabile’.
Pregiudizi e ignoranza camminano tenendosi sottobraccio…”E alle stratificazioni che si sono sedimentate negli secoli – ha aggiunto ancora lo scrittore – aggiungerei quell’ideologismo post-ideologico che nasce già con radici antiche e si diffonde, moltiplicandosi come la gramigna”. A chi consigliare questo libro? “Lo consiglierei a chi è sinceramente interessato a conoscere una pagina della nostra storia contemporanea finora troppo poco conosciuta. E per dirla con le parole di Edmond Burke, ‘chi non conosce la storia è condannato a ripeterla’”.