AGI – “Abbiamo visto più di cento persone a bordo e mi sono vergognato che abbiamo così tanto e non siamo in grado di abbracciare questi altri esseri umani, i nostri fratelli e sorelle che erano affamati, traumatizzati. Se gli fosse stato detto che la barca sarebbe tornata in Libia, sarebbero saltati in acqua e si sarebbero annegati, e ho sentito che era nostra responsabilità portare quanta più luce possibile. Voglio dire, nell’Italia profondamente cristiana, come è potuto succedere? È criminale aiutare le persone bisognose? È stato sbalorditivo per me”.
Lo ha detto Richard Gere intervistato dal Guardian. Il 9 agosto 2019, insieme al fondatore di Open Arms, Oscar Camps, ha distribuito cibo e acqua a 147 migranti che nell’agosto del 2019 sono rimasti 19 giorni sulla nave ormeggiata davanti a Lampedusa, dopo il divieto di ingresso del governo italiano. La vicenda è al centro del processo contro Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno, accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, di cui ieri si è tenuta una udienza nell’aula bunker dell’Ucciardone con al centro la deposizione, quale teste, di Oscar Camps. Nella prossima udienza del 7 luglio, l’avvocato di parte civile, Arturo Salerni, ha fatto sapere che sarà chiesta la citazione dell’attore per il prossimo 15 settembre.
Richard Gere è ritenuto un testimone chiave e obiettivo delle condizioni a bordo della Open Arms. In quel periodo si trovava in vacanza in Toscana e, venuto a conoscenza della situazione, con suo figlio ha preso un volo per Lampedusa.
Racconta che un isolano lo ha riconosciuto e si è offerto di aiutarlo e si è recato con una piccola barca carica di provviste sulla Open Arms: “Mi sono presentato. Li ho presentati a mio figlio. Li ho guardati negli occhi. La maggior parte di loro non mi conosceva né sapeva chi ero. Per loro, ero solo un lavoratore che portava del cibo e faceva del suo meglio per sorridere ed essere gentile. Abbiamo portato acqua e cibo, e forse un senso di speranza. Siamo stati un’ancora di salvezza per un mondo di non tortura, di possibilità e sogni. Poi ho chiesto loro chi sono, da dove vengono. C’era una madre con le sue giovani figlie che doveva navigare tra le milizie che cercavano di raggiungere la Libia. Certo, queste ragazze erano facili prede, e lei doveva darsi a ogni confine, doveva darsi a bande di milizie, sessualmente, per proteggere le sue figlie e portare la sua famiglia nel Mediterraneo, dove ci sarebbe stata speranza e sicurezza. Ed eccola lì, a 20 miglia dalla salvezza ma incapace di raggiungere la riva”.
E conclude: “Non conosco chi è sotto processo, sono un testimone, né più né meno. E quello che ho visto posso condividerlo con il resto del mondo se mi viene chiesto”.