L’abatino a 80 anni si è proposto come sostituto di Mancini. Ma chi è stato Gianni Rivera ? “Che film ha fatto?” si chiederebbe qualcuno. E’ stato un grande del calcio degli anni Sessanta e Settanta. Michel Platini e i vertici dell’UEFA decisero che il nome di Gianni Rivera meritasse di essere affiancato a quello di Alfredo Di Stefano, Bobby Charlton, Eusebio, Raymond Kopa ecc. nell’empireo dei campioni europei indimenticabili, assegnandogli il premio “del presidente”. Riceverlo a San Siro, nello stadio che fu teatro delle sue gesta, costituì per il “golden boy” un meritato onore, specie dopo un lungo oblio da parte dei dirigenti rossoneri, “costretti” a riconoscergli un passato di grande protagonista della scena milanista. Oh, certo, Rivera non è stato un carattere facile e non solo per le sue critiche a Berlusconi, ma per ben altro: è stato un ribelle, un rivoluzionario, ma anche un idealista cui pochi hanno prestato ascolto. Quando eccelleva sui campi, Gianni Brera lo definì “abatino” per il suo esile fisico e la sua abilità da finisseur del pallone e non da ruvido pedatore. Rivera finì al centro di mitiche dispute con l’altro maestro del giornalismo dell’epoca, che lo difendeva, Gino Palumbo. In realtà il giocatore fu al centro della lotta ideologica fra offensivisti e difensivisti, fra i fautori di un calcio che badava solo al risultato (quello del pragmatico giornalista padano) e i propugnatori dell’estetica (gli allievi dello “scriba” Aluisinus Avis Columba, come Brera definiva il suo rivale napoletano). Lui, l’Abatino, continuò a disegnare ghirigori col pallone, vincendo tutto: un Pallone d’oro (1969), una Coppa Intercontinentale (1969), due Coppe dei campioni (1963, 1969), due Coppe delle Coppe (1968 e 1973), tre scudetti (1962, 1968 e 1979), quattro Coppe Italia (1967, 1972, 1973, 1977) e un titolo di capocannoniere (17 gol nel 1973 insieme con Savoldi e Pulici). Un fenomeno: a quell’epoca si giocava meno di oggi e Rivera mise insieme ben 501 presenze in serie A, segnando 122 gol. Con la Nazionale Conquistò un titolo europeo del 1968 e disputò quattro Mondiali (1962, 1966, 1970 e 1974): 60 partite e 14 gol. Visse in prima persona i turbolenti passaggi della disfatta in Cile e della Corea, ma sfiorò il titolo in Messico (secondo posto dietro il Brasile di Pelè), dove decise la semifinale con la Germania (quella del 4-3),ricordata allo stadio Azteca di Mexico City come “el partido del siglo” (la partita del secolo). Il genietto del calcio venne scartato dalla Juve, quand’era nell’Alessandria, la squadra della sua città, perchè troppo mingherlino, ma approdò al Milan per 70 milioni dopo essersi messo in luce con la maglia grigia con cui esordì in serie A a soli 16 anni. Da giocatore maturo incendiò l’ambiente con le sue roventi polemiche nei confronti degli arbitri (in particolare Concetto Lo Bello e Michelotti); fece la guerra all’ingegner Mandelli (tutore di Valcareggi ai Mondiali messicani) rilasciando una celebre intervista a Candido Cannavò: “Mandelli è un intruso, io merito di giocare”, disse a proposito della celebre “staffetta” con Mazzola. Gli fecero disputare 6′ nella finale col Brasile, a partita già persa e scoppiò un putiferio. Rivera continuò le sue battaglie al Milan, dove fece cacciare il presidente Albino Buticchi, un petroliere che lo voleva scambiare con Claudio Sala del Torino, definito “il poeta del gol”. Quando Buticchi propose l’affare a Orfeo Pianelli, presidente granata, quest’ultimo rispose: “Io non faccio l’antiquario”.
Eravamo a Milanello, quando Rivera non si presentò agli allenamenti e fu in pratica messo fuori. Cominciò una dura battaglia: fiancheggiato da Padre Eligio, un frate incendiario, definito sarcasticamente “Don Perignon”, per le sue abitudini mondane e le sue frequentazioni altolocate, Rivera tentò di comprarsi il Milan, rimettendoci i risparmi. Brera scrisse che la vicenda gli ricordava quelle delle ballerine che, uscite di scena per ragioni anagrafiche, si comperavano il teatro per continuare a ballare. Fu un’epoca turbolenta per il Milan, finito in B e alle prese con la giustizia.
Rivera, ex monumento del calcio italiano, finito di giocare cominciò un’altra carriera, quella di parlamentare e divenne anche sottosegretario.
A 68 anni, ha fatto persino l’attempato bellerino, danzando con le stelle. Ma la vera stella era lui. Ed è un peccato che la sua competenza non sia stata meglio sfruttata nè dal Milan, nè dalla Nazionale. Ha fatto il presidente del Settore Giovanile e Scolastico della Federcalcio.
Platini e l’Uefa si sono ricordati di lui col premio del presidente. Avrebbe potuto fare di più, ma forse ha condotto battaglie sgradite all’establishment del calcio: le sue parole, a volte, hanno lasciato il segno, sono state pesanti come pietre. Nel bel mezzo delle (solite) polemiche con la Juventus, per la cosiddetta sudditanza psicologica degli arbitri, disse: “La palla è rotonda, ma rotola sempre dalla stessa parte”. Tutti ci siamo dimenticati di lui che, “riesumato” per i suoi 80 anni ha fatto ancora notizia proponendosi per la panchina azzurra. Qualche giovanotto ignaro della storia della pedata si chiederà come il Manzoni fece di Carneade. Rivera ? Chi era costui ?