ROMA (ITALPRESS) – Ed ecco di nuovo il tentativo referendario di tornare indietro sulle riforme del lavoro. Una storia infinita contro la modernizzazione del mercato del lavoro che si ricollega a quella che definì il libro bianco di Marco Biagi per i diritti dei lavoratori, “libro limaccioso”. Poi sappiamo come andò a finire con il martirio del professore di Modena. Successivamente, e comunque senza dare alcuna tregua alle riforme del decreto Biagi, è iniziato il tiro al bersaglio sul Jobs act; dal suo varo di 10 anni fa e fino ad oggi. La tesi a sostegno della ripulsa verso le riforme è sempre la stessa: le riforme procurano danno ed impoverimento dei lavoratori. Questa è la costante di una pressione che non tiene affatto conto della non secondaria circostanza, che le norme precedenti erano disegnate da contratti collettivi e leggi su una organizzazione del lavoro delle produzioni che non esiste più.
Quello era un altro mondo rispetto a quello odierno: era costituito prevalentemente da migliaia di lavoratori per unità produttiva, con un orizzonte di mercato sostanzialmente nazionale. Ora Landini ci ritenta con la raccolta di firme per la promozione del Referendum contro il jobs act, con quattro quesiti da abrogare: 2 sui licenziamenti; uno sulle causali dei contratti a termine; uno su appalti ed infortuni. Lo sciopero annunciato pomposamente generale, promosso solo da CGIL e UIL, dagli annunci fatti, vuole sottolineare la decisa denuncia contro la precarietà con il corredo di un approfondimento statistico sul fenomeno in continuità già con altre fatte nel tempo. Questi dati denunciano che molto oltre la metà dei lavoratori italiani sono precari; che l’anno scorso le assunzioni a tempo indeterminato sono al di sotto il 20%. Tesi assai azzardate per il semplice fatto che si sommano nel conteggio il rapporto iniziale a carattere temporaneo e non quelli che successivamente vengono trasformati a tempo indeterminato. Come si sa le assunzioni inizialmente si operano in grande parte a tempo determinato sostanzialmente per saggiare le attitudini degli assunti prima di stabilizzarli a tempo indeterminato. Comunque, pur esistendo situazioni inaccettabili soprattutto in aziende che hanno difficoltà con i mercati o che per attitudine maltrattano chi lavora, il dato dei lavoratori a tempo indeterminato, dunque stabili, in Italia è l’83%, percentuale di stabili che non si discosta da quello francese e tedesco. Dunque situazione molto diversa da quella che si descrive pur essendoci ancora una realtà che ha bisogno di attenzione. Ed allora a che serve questo allarmismo se non a fuorviare la pubblica opinione ed a ritardare politiche virtuose tanto necessarie per far fronte alla competitività delle produzioni italiane nei mercati.
Per dare prospettive alla nostra economia e dunque al lavoro, a coloro davvero in difficoltà, occorrerebbe una rivoluzione nella education, nella energia, nella concorrenza, nella riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni, nei salari da aumentare partecipando alla redistribuzione della ricchezza prodotta con premi di produttività e partecipazione ai maggiori utili delle aziende. La battaglia giusta da prendere è questa, diversamente guardando indietro, anziché essere nella schiera di chi risolve problemi, si è in quella che li procura.
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